[Parte Prima] Sniper, ith24 rivela il nome in codice di “anonimo”. Il libro fu scritto da Simbad

[Esclusiva ith24]

A cura di Pistone

Di anonimo, o meglio di Simbad si sono perse le tracce. Le indiscrezioni dicono che sia in Russia. Ma restano voci di corridoio. Simbad è stato un militare impiegato in varie missioni di Pace. Forse in alcune non convenzionali. Un fantasma. Scrive delle memorie. Vengono pubblicate sotto la dicitura “anonimo”. Ci assumiamo la responsabilità di quello che riportiamo. Del resto le memorie erano o sono pubbliche. Lo scritto è lungo. Il titolo: Sniper.

Missione di Pace Bosnia-Erzegovina

Sinossi

Missione di Pace dei nostri soldati in Bosnia-Erzegovina e Kossovo. Ricordi, esperienze crude e sanguinose, frammenti di una guerra che non era la nostra e che è stata combattuta a volte al di fuori delle regole. Guerra ormai dimenticata da tutti ma non da quelli che l’hanno vissuta sulla loro pelle. Racconti di prima mano di uno di quei soldati che preferisce rimanere ANONIMO.

LE REGOLE DEL CECCHINO

1) Il proiettile deve essere scagliato alla più alta velocità possibile e con la miglior traiettoria possibile, per causare il maggior danno con il minimo sforzo

2) La vittima deve essere colta di sorpresa se possibile, in una fase di apparente tranquillità. Questo per aumentare il dolore inferto

3) L’approccio deve essere di soppiatto, da codardi, di modo da avere poi un effetto dirompente

Nel caso la vittima non sia abbastanza scossa, si consiglia di infliggere il colpo di grazia lasciandola nel bel mezzo dei propri pensieri…a sanguinare

Sniper

Da una settimana siamo in tre tiratori impegnati a stanare un maledetto Aleksije che fa diligentemente il nostro stesso lavoro e lo fa con successo da 6 lunghi mesi, durante i quali ha steso una dozzina di cecchini, tutto da solo. L’ultimo, neppure lo conoscevo perché ci evitiamo tra di noi, l’ha colpito l’altro ieri sotto il cassone arrugginito di una Uaz dov’era nascosto da 4 giorni senza muoversi mai … cambia posizione di continuo e spara da posti sempre diversi ed ha il vantaggio di conoscere a menadito la zona da mesi … per cambiare piove a dirotto, maledetta guerra. Passo le notti nel condotto delle fogne dove il freddo è appena sopportabile, niente cibo caldo, solo pane duro e salsiccia annaffiata con slivovizt … non si beve altro da mesi mentre alle porte della città di Sarajevo si brinda alla vittoria finale. I reparti sono arrivati a due passi dalla Piazza Bistrik At Mejdan senza incontrare resistenza e non appena i fessi appostati a meno di 6 chilometri dalla periferia con le loro carrette di ferro si decideranno a smuovere i loro tubi da stufa occupando Sarajevo. prima che la neve li seppellisca … finirà questa sceneggiata da operetta che è costata un fiume in piena di sangue. Le periferie sono deserte, tutto il popolo di Sarajevo ha abbandonato le catapecchie trascinando con sè tutto quello che avevano: la povertà. Il piccolo bip tiene tutti al coperto, questo stato di cose è intollerante e poi i bersagli preferiti, come solitamente li sceglie un veterano cecchino, sono i pavoni ingallonati che mette sul suo libretto personale. Tutti gli eserciti si assomigliano, anch’io sono tenuto dal regolamento a segnare con la massima precisione il numero di bersagli centrati, il luogo e l’ora esatta, nonché la regione e la … nazione … i signori dello Stato Maggiore lo sanno bene che in caso di cattura di uno di noi con simili credenziali, rende l’anima faticosamente. In Kosovo uno dei nostri ha urlato per una settimana prima di finire tra atroci tormenti … lo hanno bruciato lentamente incominciando da un piede messo accanto a dei tizzoni ardenti e dopo tre giorni hanno fatto uguale con gli avambracci, consumando la pelle fino ai moncherini delle ossa … gli hanno disarticolato le braccia e bruciati gli occhi prima di finirlo in una pentola d’acqua bollente. Presso Jablanica li hanno squartati legati a quattro buoi … il peggio è cadere tra le mani delle donne Serbe, sono delle vere iene assetate di vendetta, tutte volontarie, tutte giovanissime, tutte private dei loro amanti e mariti arruolati per ferocia, capacità che per esempio ha solo i bastardi mongoli, ometti pericolosissimi da trovarsi di fronte e totalmente incapaci di arretrare di un passo. Ho visto il plotone kosovaro falciato dalle mitragliatrici andare impavido e fiero incontro al massacro come in un sogno di follia gloriosa … neppure i carri armati li hanno fermati e la fanteria è crollata sotto alle pallottole.
Piove ed ho fame, e il bip “collega” ha fatto una nuova nota sul libretto personale; un portaordini ha lasciato cadere con noncuranza uno spaccio per me, mi ordina di non lasciare la posizione, pena la fucilazione sommaria e un intero caricatore in testa, nonché ha promesso di staccarla dal corpo per darla ai suoi amati dobermann. Fesso imbecille, l’esercito è pieno in abbondanza di scheletri come lui, lurido parassita che arriva comodamente in aereo riscaldato, sempre dopo la presa delle linee, assicurandosi che gli Aleksije siano almeno a 200 chilometri da lui … ecco un pavone che cerca una morte anonima in una città deserta.
Il cunicolo verso est pare si allarghi e calcoli dei buoni mille metri dalla mia postazione, piove e l’acqua ha preso a salire, neppure le fogne mi levano il freddo da dosso. Ho sentito urla in serbo … tiro su piano la grata di un tombino … da uno scantinato si sente uno schiamazzo soffocato, ma non troppo. In fondo alla via 6 grossi camion del Genio si danno da fare minando l’intero quartiere, ben presto il blocco abitativo diventa una polveriera a tempo. Sbircio nella cantina … sono una compagnia di veterani imboscati che se la spassano cuocendo patate lesse in una pentola bollente e il solo fuoco mi porta dove non dovrei … risvolto le mostrine e strappo i distintivi di tiratore, il fucile lo nascondo accanto al muro d’ingresso del tombino … sull’altro lato due cadaveri serbi abbandonati hanno le armi accanto …. Faccio il necessario rumore per non essere preso a revolverate e metto la testa oltre lo stipite, ho una bomba a mano disinnescata pronta al lancio, tempo 4 secondi e posso polverizzare l’intera masnada …


“Fermo lì, pidocchio, da dove spunti? Cristo, puzzi come un topo di fogna.”
“Ho lasciato gli altri per un giro solitario e poi che t’importa bamboccio.”
Il “bamboccio” è alto e grosso il doppio di me e se l’ho vinta su di lui ho gli altri in mano. “Bamboccio a me …” ghigna con una boccaccia il gigante. “Certo che una mezza cartuccia come te che dà del bamboccio a me o ha del coraggio oppure se la fa sotto dal terrore”
“Allora vediamo come sei veloce, bamboccio …”
Gli tiro la bomba a mano innescata dicendo
“Hai 4 secondi per rimettere la sicura “
“Maledetto… stronzo … fottuto imbecille …”
“E di che? Con un pizzico di cervello ci sei riuscito, quindi zitto!”
Il resto della compagnia è sdraiato tra le macerie impietrito … ma da sinistra scatta il solito eroe che incontra il calcio del mio Kalashnikov sui denti con un colpo deciso mentre lo punto poi con malcelata distrazione sulla pancia del gigante, rosso come un fuoco divampante … che sbotta in una risata da mina anticarro …
“Che sia dannato se non é uno dei nostri. Chi sei eroe?”
“Dillo ancora e la prossima bomba a mano ti va su per i pantaloni.”
” Senti senti il piccoletto com’è raffinato, un vero gentiluomo, a quanto ascolto.”
La risata scatena il plauso generale e il gigante toglie da una cassa una bottiglia che mi arriva al volo ma che afferro prima che mi prenda in piena faccia … i riflessi sotto le armi diventano automatici e ti salvano d’istinto, è una bottiglia di vino, finito lì come non si sa.
” Siedi sorcio schifoso, puzzi come un maiale e racconta la tua storia. “
“Non ho storie per chi non conosco, non tocco cibo da mezzogiorno” mento. “Ho una fame che farei bollire uno scarpone nella pentola pur di inghiottire qualcosa.
“Non è il centro di Roma e lì ci sono patate a volontà e buon vino e vodka … salsiccia e cipolle selvatiche crude … per servirti.”
La scena va avanti senza intoppi per due giorni tra risse e partite a carte, perdo regolarmente e vinco appianando le postate, intanto sto al calduccio e mangio persino della vera carne di cavallo, macellato dopo averlo sottratto ad un contadino. Me la filo alla chetichella di notte tarda portandomi dietro un bel pezzo di carne cotta avvolta in un panno sudicio di grasso, fa comodo da succhiare quando il freddo ti morde dentro … Porto il mitragliatore con me giù nel cunicolo assieme a tre bottiglie di vino rosso, meglio approfittare sempre del buon cuore di altri e prendere quello che non ti darebbero è una regola d’oro per sopravvivere … la fogna è senz’acqua e puzza ancora peggio, la camminata mi porta a destinazione e sbuco all’alba che porta nuovamente acqua mista a nevischio, la visibilità è nulla. Due ore dopo passano 5 fantaccini, mi cercano … fischio leggero e uno si avvicina guadando in alto come per capire quanto nevica … sono al sicuro dai tiri del cecchino, sanno che non li colpirà, non è interessato a dei semplici esploratori, però capisce molto bene che tra di loro è nascosto qualcuno.
“Dove eri finito pezzo d’idiota? Il Capo è letteralmente inferocito senza novità.”
“Quali novità? Anche un cieco vede che sta solo nevicando, cosa dovrei fare, sparare al primo che passa?
“Ieri il compagno alla tua sinistra, s’è preso una palla tra gli occhi … perché non hai fatto fuoco, non hai visto da dove è partito il colpo?”
“Fesso, certo che l’ho visto … – sto mentendo da bugiardo – che credi stessi facendo, dormire forse? Non ho cibo da quasi una settimana e vedo doppio in mezzo a questo biancore accecante … bevo l’acqua di fogna e mi congelo tutto … il tuo Capo se mette la testa oltre il dovuto, lo stendo facendo il lavoro di Aleksije.
“Piantala – mi dice – ti lascio la bottiglia di cognac dietro la pila di mattoni, la prendi al buio questa sera, da mangiare non ne ho …. ,


“Non lasciare niente e togliti dai piedi.
“Da qui me ne vado, non appena fa buio capito deficiente? Non voglio un proiettile in testa per la vostra fretta di beccare un tizio che sta qui da mesi e tira con una precisione esemplare.
” Fuori dei piedi e fila a 30 metri a ovest e stai fermo quanto lo sei stato qui.
La masnada americana è composta di cretini conclamati, sono arrivati a Sarajevo e non fanno nulla per entrare in una città abbandonata … non ci sono abitanti civili e neppure un Aleksije con l’uniforme in tutta Sarajevo … qui sono tutti fuggiti terrorizzati con i battaglioni nelle periferie, mezza Sarajevo è sotto assedio … ma chi ha maggiore paura in questa gazzarra maledetta? Cambio posizione e mi porto a ridosso del cadavere sulla mia sinistra, un tiratore freddato in fronte … però era ben coperto da diverse lamiere di ferro con un solo spiraglio ed è stato colpito a un metro e mezzo da queste. Vuol dire che se collimo la linea di tiro so da dove ha sparato Aleksije. Lo faccio nel solo modo possibile. Prendo il suo posto, dopo averlo rimosso e gettato in una buca d’acqua con grosse pietre per tenerlo sotto, ne assumo l’esatta posizione e domani con la luce cercherò la provenienza del proiettile, è rischioso restare sulla stessa linea di tiro, però con un po’ di fortuna posso tentare l’impresa. Altra pioggia gelata, per cambiare e cielo di piombo, la luce del mattino si trova alle mie spalle e Aleksije ha sparato di pomeriggio, significa che preferisce la luce alle spalle, interessante. Questo vuol dire che ho la prima mattina per individuarlo ed il pomeriggio per ignorarlo completamente. Vedo perfettamente sull’allineamento da dove ha sparato, è la palazzina di fronte ad angolo, da lì si possono battere due angolature distinte … il tipo è in una ottima postazione e copre un raggio di 160 gradi di visualità. Ha fatto fuoco in direzione 115 gradi e 4 giorni fa su 45 gradi, si deve pur muovere avanti ed indietro e quindi è dietro ad una delle tre aperture di sinistra … il potente monoculare Zaiss si insidia tra le fessure delle ampie finestre distrutte … niente, nessuna traccia e questo non dice assolutamente nulla, il cacciatore è lì nascosto. Riesco a studiare la parte nascosta dell’edificio usando come specchi dei vetri rotti e non si vede nessun movimento … nel centro del salone troneggia un grosso armadio a due ante appena discosto dal muro ed il resto è ben poca cosa, eppure tre dei nostri li ha colpiti da quella postazione e tutti nel primo pomeriggio. Mi devo inventare un trucco. Tiro fuori la notte stessa il cadavere dall’acqua gelida e taglio di netto la testa … lasciando affondare il resto, e rimetto il fucile nella stessa posizione in cui ho trovato la scena con un particolare diverso … senza il berrettone di pelo, se ispeziona regolarmente la postazione di tiro deve notare il particolare, per forza. Sposto di 50 centimetri la mia linea di osservazione e di tiro, voglio individuare il tiratore e se lui vuole osservare me, lo può fare solo frontalmente, all’alba con la luce posso avere la visibilità migliore, mentre le prime ore del pomeriggio sono le più pericolose dal mio lato luminoso. Sono stanco e supero di poco le 13 ora locale. E mi salvo la testa! Un proiettile infilato dalla piccola apertura a fianco della trappola mi avvisa bruscamente che Aleksije mi ha non solo individuato, ma capito la trappola, ha sparato sul fianco proprio dove immaginava mi trovassi. La botta di stanchezza mi ha salvato la vita ed ora ho una possibilità brevissima di trovare il punto dello sparo. La collimazione dell’angolo trigonometrico prova un’altra volta l’ultimo piano della palazzina, distanza 230 metri, ma da dove se non c’è niente … oltre l’armadio che se ne sta lì nel mezzo. Però qualcosa di cambiato lo vedo, una delle ante è socchiusa appena e al mattino durante l’accurata ispezione era chiusa; il vento è calato da ieri pomeriggio. Un professionista, specie con la sua pelle in ballo, ragiona sempre con la testa dell’avversario e se dovessi battere due fronti lo farei da una postazione centralizzata, usando la migliore visibilità giornaliera.

Il cecchino è dentro l’armadio ed entra ed esce strisciando sul pavimento, impossibile da vedere dal basso e poco probabile da altre angolature, la palazzina è la più alta della piazza. Com’era prevedibile si è scelto con comodo il posto adatto, ecco perché teneva in scacco il quartiere da mesi e se l’era sempre filata durante gli attacchi, il posto è stato perquisito più volte e nessuno ha pensato all’armadio come scudo. La notte la passo al freddo e sotto la pioggia battente mista a neve, che mi penetra nelle ossa, sono tutto bagnato; la mattina seguente vedo chiaramente chiusa l’anta di destra e solo accostata la sinistra, che permette di battere sulla destra dell’edificio, Aleksije ha fatto l’ingresso sulla scena, mi sale l’adrenalina, ora so come fotterlo. Non mi muovo restando congelato dentro la buca ed aspetto il primo pomeriggio, se Aleksije mi osserva lo inganno facendogli capire che ha mancato il colpo … la presa in giro lo potrebbe scoprire. Alle 13 e 22 minuti l’anta di destra si muove di tre centimetri, pochi per il passaggio di una persona, il cecchino ha un’ apertura sul retro dove s’infila strisciando e capire da dove arriva è impossibile. Smonto lo Zeiss e poso il binocolo, la potente ottica mi rivela un debole luccichio nella penombra dell’armadio, appena percettibile ma un riflesso ha tradito il tiratore, sono certo che è lì dentro … furbo, ma non troppo per i rischi di una postazione fissa e per di più vulnerabile … un proiettile da 330 lungo neppure lo sente passando attraverso. Rimetto il berretto di pelo sulla testa mozzata … è pura provocazione, perché nessun professionista farebbe un simile errore … durante l’addestramento restavamo pietrificati per decine di ore intanto che altri tiratori cercavano il minimo movimento da parte nostra per farci fuori, e Aleksije questo lo sa. Rimonto eccitato lo Zeiss sul Sako e inquadro l’apertura … ho un obiettivo ristretto che fisso come centro sulla parte dove ho visto il debole luccichio, forse l’ottica di Aleksije … è un 40 centimetri in quadrato, li ci deve stare la zucca del tiratore tiro lentamente il grilletto e il colpo parte ovattato. L’anta si perfora spalancandosi … un Aleksije pelato, giallo come un cinese e con un paio di occhialini cerchiati di ferro si materializza per un attimo nell’interno dell’armadio fissandomi … il brutto ceffo sorride!? Ho tirato ad un maledetto mancino. Il colpo l’ho diretto sulla destra del quadrato di tiro e lui da mancino aveva la testaccia pelata sulla sinistra, il colpo l’ha sfiorato, divertendo il cacciatore di lupi. Questo porta il vantaggio su di lui e la perdita su di me, così sono due settimane buttate al diavolo tra sporcizia, gelo e fame arretrata … mi rimane la soddisfazione di impedirgli l’uso dell’armadio, ora o sloggia oppure deve trovare l’alternativa per mantenere il doppio controllo sugli angoli della piazza. Durante la notte la staffetta mi ordina di rientrare per un rapporto dettagliato … dal tono capisco che mi aspetta una ramanzina da consiglio di guerra o peggio dal deficiente che ha il comando delle azioni sul quartiere. Seguo l’ombra scura e strisciamo fuori della piazza senza il minimo rumore sperando in un buco dove poter dormire con tutti e due gli occhi chiusi. Maledetta guerra.
” Signore signorsì, sniper…
” Silenzio idiota. Sta zitto. Da un paio di settimane te ne stavi imboscato in dormite come un orso in letargo intanto che il tuo collega sparava su tutto quello che gli passava sotto il naso, sei un buono a nulla da fucilare per alto tradimento e puzzi come una carogna indegna per la divisa indossata.
“Signore signorsì, dopo due settimane in una buca possono succedere cose personali spiacevoli all’olfatto e se posso permettermi…


“Silenzio sciagurato!
Urla da ossesso, paonazzo, in preda alla solita sceneggiata della crisi isterica “tutti uguali queste quartine da operetta” penso, diventano dei prodotti in serie uscendo dalle accademie, ufficiali senza testa, ma con una voglia spaventosa di urlare, sempre.
” Latrina ambulante ora ti fai 100 flessioni nel fango con trenta chili sulla schiena, poi con un caporale in motocicletta una 20na di chilometri di corsa … ti lavi con la spazzola in acqua gelata buttando quegli stracci puzzolenti e ti ripresenti all’alba, pronto a levarmi dai piedi quella cimice che ci rovina la villeggiatura invernale, voglio il serbo morto, secco, steso, capito idiota?
“Signore signorsì, il tiratore non è un serbo Signore.
” Non è uno slavo?
” No, Signore è un kosovaro, uno di quelli pelati, senza denti e con gli occhietti da cinese, Signore.
” Ma sei scemo per natura o ti fai gioco di me?
” Signore con il suo permesso ho battuto troppe volte la testa e da piccolo e poi ricor… Strabuzzando gli occhi il ceffo, esasperato, estrae la grossa pistola e la punta contro di me, incominciando a sparare all’impazzata, tutta scena perché sa di avere bisogno di un cecchino e di rimandare le eventuali ritorsioni almeno a cosa conclusa e non muovo un muscolo, neppure per ghignare … rimango impalato con l’aria idiota che ogni fesso dell’esercito intelligentemente assume quando un superiore strepita, la scuola la insegna come prima lezione per campare a lungo. Getta la pistola in un angolo abbracciando un mitra “senza caricatore inserito” e me lo punta addosso tremando di rabbia … uno dei dobermann, il maschio, gli piscia addosso sugli stivali lucidissimi … è troppo per il manichino che sfatto si accascia in un angolo con un tonfo sordo, boccheggiando, smorto come un cadavere. Uno come questo non regge in prima linea neppure una settimana in un vero combattimento. Distrattamente mi metto in tasca una scatola di sigari e due dolci da gustare in santa pace, le flessioni non le faccio e un sottufficiale capace di farmi fare 20 chilometri di corsa, non esiste ancora. Un pentolone d’acqua bollente, pronto per il primo rancio della giornata brontola in fondo ad un ricovero per trattori agricoli; ecco cosa serve per un bagno prolungato, dopo aver abitato in una fogna indecente, m’è persino venuto un languorino che spengo con i dolci rubati al pavone, una bottiglia di cognac scaldato nella stessa acqua mi assopisce, cullandomi in sogni erotici… mi sveglia urlando, succede sempre così, un cuoco grasso da far paura con un’accetta in mano.
” Bestia immonda – sibila – cosa fai nell’acqua del caffè della truppa?
“Io nulla, secondo te cosa ci faccio nell’ammollo?
“Esci immediatamente oppure ti affetto come carne da servire con patate lesse.
“Non posso mostrami nudo, quindi girati, se no non esco.
“Non fare il cretino e fuori di lì!
“Ti ho detto che non posso, mi vergogno troppo.
” Fuori perdio.
“Ti ho detto che non posso, non sono come gli altri, sono un … se non ci credi vieni a dare un’occhiata, osserva te stesso.


Il cuoco si sporge e riceve una bottigliata in testa che lo stramazza al suolo. Tutti i cuochi sono dei fessi e quelli ciccioni lo sono di più. Scappo verso quella che pare una lavanderia e scelgo un corredo pulito completo di biancheria, calze nuove, maglia pesante, camicia di lana e tutto il resto che un eroe merita dopo l’onorato servizio reso alla patria non sua … la guerra ha i sui lati piacevoli e l’intera giornata tra i sacchi di farina, dormendo sul camion, è il meritato premio dell’eroe.
Così, mi presento con un regolare giorno di ritardo ben ripulito e sbarbato dall’ufficiale che neppure mi riconosce, lasciando che studi il mio libretto personale a lungo …
” Ho già avuto a che fare con un porco della tua specie, un vero inetto, un idiota …. Presto la polizia militare lo arresterà come disertore, ieri doveva presentarsi all’alba, dopo una notte di punizione e non l’ha fatto. Impara sodato, io non scherzo e so farmi rispettare, riconosco un criminale in divisa a distanza. Bene, bene. Stivali lucidi, divisa in ordine, barba rasata, capelli in ordine, unghie pulite … mostra l’arma in dotazione. Ottimo fucile … oliato e pronto all’uso. Ottica in perfetto stato di conservazione, si vede che ci tieni al tuo lavoro. Ho perso una dozzina di checche arrivate con la qualifica di tiratori scelti per colpa di un cecchino che spadroneggia sulla piazza e l’ultimo vigliacco se l’è filata disertando. Ora ti ordino di togliere dai piedi l’Aleksije al più presto, sul libretto personale riporta un numero alto di bersagli terminati, quindi sai sparare e fa il tuo servizio alla patria.


Il nero dobermann, che a differenza del fesso padrone mi ha riconosciuto, si strofina contro di me, uggiolando sordo. Saluto regolamentare con dietro front da manuale e lascio il manichino soddisfatto nel suo brodo … il fesso ha letto le credenziali di uno dei tanti libretti personali che mi porto appresso e la polizia militare sta cercando un morto, brava gente quella, come tutte le polizie mancano di cervello, i primi ad essere presi per i fondelli sono i tutori dell’ordine, proprio dove in una guerra seria imperversa il caos totale. E così, tanto per cambiare, destinazione prima linea sul lato ovest di Sarajevo, almeno dormo sonni tranquilli. IVAN è sull’altro lato e martella le posizioni con batterie trasportate, e con calibri pesanti schierati sulla seconda linea di fuoco arretrata. Dall’altra parte sparano ininterrottamente da settimane su tutto quello che è messo in acqua, battelli carichi di soldati sono centrati come tiro al bersaglio. Camion della sussistenza colano a picco sotto grandini di proiettili. Il Genio, ha gettato 6 ponti con enormi perdite, andati tutti. Ogni giorno sono arrivati Ufficiali in boria e lucidati a dovere, freschi d’accademia e indottrinati sulle vittorie facili, poveri fessi. Sono dei veri duri dall’altra parte, ci sono gli Ustascia con le batterie da 76mm da campo e i mongoli sulla sinistra con i 151mm e con i 230mm; arrivati da Belgrado altri Ustascia, le truppe sonnecchiano impazienti di poterci sterminare, questi di massacri se ne intendono fin troppo. Li ho visti all’opera dove hanno stanato interi battaglioni con esperienza di guerra dalle abitazioni, radendo al suolo interi quartieri. Tiravano a chiunque tentasse di cedere di un passo, cadevano nei viali centrali falciati dai tiri incrociati. A me toccava il tiro al bersaglio sui comandanti, centrare un capo gruppo disorientava la truppa e dalle posizioni alte dei palazzi avevo gioco facile, con il pericolo costante d’essere individuato in posizioni isolate; un cecchino non ha copertura e neppure protezione, è un cane solitario condannato al suo destino e se crepa non dispiace a nessuno. E’ un assassino da evitare come un appestato. I Cetnici pericolosissimi e sorridenti, avanzando trucidavano chiunque incontrassero, vere macchine mortali, impiccavano ai fanali, oppure appendevano per i piedi i malcapitati e accendevano un fuoco sotto la testa per vederli morire tra atroci tormenti e me ne guardavo dal portare loro una morte rapida con un colpo ben centrato, li avrei avuti addosso per stanarmi, un cecchino lo avrebbero spellato vivo e cosparso di sale e poi di olio e lo avrebbero cucinato a fuoco lento, un siberiano mangia qualsiasi cosa passi sotto mano. Violentano, uccidono, combattono, muoiono, sempre con la stessa espressione sorridente, sono uguali ed impossibili da distinguere tra loro, sono macchine fatte in serie. Ho un solo vantaggio, quello che posso colpire a grandi distanze e farlo nei momenti di massima confusione, mentre sono sotto attacco, nessuno capisce un tiro di precisione isolato. Colpire un comandante al riparo in momenti di calma che rivela la presenza di un cecchino in posizione da stanare, farebbe scattare immediatamente una caccia all’uomo. Hanno anche loro dei tiratori scelti, una Ustascia piccola e magra, feroce come una tigre, astuta cacciatrice di lupi prima di essere arruolata tra le truppe; è capace di rimanere notti e giorni immobile senza cibo, in nascondigli impensabili e colpire più bersagli dallo stesso punto, spara dall’interno della postazione deformando l’eco dello sparo. Nessuno è riuscito a batterla, ci ha pensato un bip Cetnico in una partita a dadi con un fendente alla gola, l’Ustascia barava per vizio giocando, lo sapevano tutti, voleva vincere sempre, non le piaceva perdere e voleva arricchirsi con ogni mezzo. Il cetnico fu comunque fatto a pezzi per onorare una grande assassina. Il suo tesoro ricavato dalle vincite, conteso da chi ne reclamava le perdite costò ai serbi un centinaio e più di uomini, la faida durò mesi. Intanto che si assassinavano tra loro, gli Americani sganciavano tonnellate di bombe dirompenti e bombe a grappolo da 200 chili devastanti come cicloni, e i caccia bombardieri pesanti delle bombe ad uranio arricchito e incendiarie al fosforo che colava fino ai rifugi, riducendo le cantine piene di civili come fornaci. Questi sono i momenti in cui il cecchino può tirare a colpo sicuro senza farsi localizzare. Un Ufficiale comandava un nucleo d’assalto fastidioso con il compito di stanare casa per casa ogni resistenza usando i lanciafiamme a kerosene, i suoi carnefici lavoravano duro con mortai e bombe a mano, orchestrando pulizie raffinate, naturalmente saccheggiando come d’uso e violentando, uccidendo senza distinzione, veri macellai senza onore come del resto ne avevamo anche dalla nostra parte. Assassinare per la bestia umana è innato e trattenuto come istinto solo per dovere, una volta assaggiato il gusto onnipotente di togliere la vita, non lo fermi più. L’istinto primordiale trasforma il mite in una belva assetata di sangue, incapace di pietà e la femmina umana non è di meno del maschio, anzi è nel privilegio di dare la vita nel dolore che ne gode nel toglierla con piacere, i serbi hanno intere compagnie di donne soldato che sanno combattere e sparare meglio degli uomini, nel trovarsele di fronte non si devono provare esitazioni fatali, nessuna distinzione, eliminazione totale, fuoco a volontà. Aleksije lo tenevo sotto tiro da settimane, aspettando il fatale istante per metterlo a tacere. Occasioni ne avevo avute ma fuori copertura, mentre un Ufficiale superiore mi ingiuriava prendendomi a schiaffi. minacciando il solito plotone d’esecuzione se non lo fermavo, gli Aleksije macinavano soldati ONU ogni giorno, i nostri lasciavano perdite sul terreno ed i serbi cantavano vittoria, il Maggiore ribolliva di rabbia. Aspettavo la condizione favorevole e questa arrivò sotto un attacco aereo che spianò il quartiere dell’eroe Mikalovick, Generale di cavalleria zarista convertito alla causa comunista, un vecchio barbagianni volta gabbana pronto alle rivoluzioni come a cambiarsi i calzini, caduto portando la sua cavalleria a scontrarsi con i carri armati. La piazza ed il monumento eretto in suo onore sparirono come per incanto in soli venti minuti di bombardamento a tappeto. Aleksije, sicuro di sè per il macello spettacolare da ammirare con golosità, si sporse da spavaldo salutando i bombardieri sopra di lui e questo gli costò il biglietto gratuito per l’inferno. I nostri mitraglieri con degli assaltatori battevano sotto il bombardamento le line di Aleksije in un attacco serrato, il colpo gli arrivò nell’occhio uscendo dal cranio; se infili un proiettile nell’orbita, questo non perde potenza e svuota la testa uscendo con l’intero cervello senza lasciare nessuna traccia del proiettile, nessuno sa che cosa l’ha colpito, un bravo tiratore scelto non lascia la sua firma, mai. La banda di assassini perì dopo meno di un’ora di attacchi violenti, senza il macellaio che li spingeva a frustate, il branco di lupi senza guida si sciolse sotto i getti dei reparti lanciafiamme, veri professionisti degli arrosti umani. pronti a cucinare la propria madre o i figli senza nessuna pietà; dietro un getto di kerosene in fiamme ti senti il diavolo in persona e nessuna arma è capace di crepitare contro un muro di fuoco ribollente, l’olio del combustibile si attacca alla pelle e sugli abiti e non te ne liberi neppure in acqua, l’ossigeno trattenuto dai tessuti alimenta la fiamma. Un Ufficiale superiore ne approfittò per una lavata di capo e note di biasimo sul libretto personale, addebitando della reticenza e sospetto tradimento per il ritardo accumulato sull’ordine ricevuto, sputò sul libretto leggendo la lunga lista di demeriti iscritti e mi tirò un potente calcione sul ginocchio come sopravanzo, uno come me non aveva nessun diritto di appartenere all’esercito…
“Signorsì maggiore, chiedo rispettosamente di poter parlare
“Zitto idiota, cosa ti passa per la testa, imbecille?
“Faccio notare che l’esercito ha voluto.
“Sciagurato insolente, dovrei spararti immediatamente sui due piedi.
“Faccio notare signore, che non può farlo, non sono ai suoi ordini, ma a quelli del Guercio che non perdona chi tocca un suo pupillo
“Deficiente – grida impallidendo e pestando i piedi imbestialito – e togli quel ghigno divertito da tuo brutto muso
Sgangheratom mi fa saltare il basco dalla testa
“Cretino, criminale, idiota spudorato, se non fossi un vero signore ti spedirei difilato tra i plotoni volontari in prima linea dove non camperesti un giorno di più. Sei l’unico deficiente dell’esercito che va in giro con quel basco orrendo in testa fuori ordinanza e nessuno ti ha fatto fuori, maledizione com’è possibile tanta ingiustizia.
“Signore, rispettosamente faccio notare di essere già un volontario e di trovarmi da anni in prima linea, dove non mi trovo poi neanche male, ho quello che basta per un ordinario servizio, mi taglio le unghie dei piedi e pulisco quelle delle mani, mi pettino ogni mattino e tolgo i pidocchi come fa lei, Signore.
Il maggiore è paonazzo, non crede alle sue orecchie, non gli era mai successo di ascoltare nessuno che si permettesse libertà del genere, come un fulmine da ossesso estrae la grossa pistola dalla logora fondina, è un Ufficiale di carriera, un ex impiegato statale, uno rimasto all’antica, è fuori di sé, trema come impazzito puntandomi in faccia la scacciacani da 9mm parabellum….e si spara un colpo alla tempia. Lo osservo accasciato sul pavimento, classico collasso da prima linea, succede di frequente sul fronte, nessuno resiste a lungo come Ufficiale, va meglio per la truppa che obbedisce agli ordini senza discutere, gli Ufficiali decidono gli ordini ricevuti, senza poter decidere per loro. Entrano i piantoni del comando provvisorio, mentre impalato sull’attenti li guardo assente.
“Che cosa è successo? Chi gli ha sparato? Perché te ne stai impalato?
Faccio rispettosamente osservare che il maggiore non mi ha ordinato il riposo regolamentare.
“Ma sei tutto scemo, non vedi che si è sparato un colpo in testa, cretino.
“Mi pareva di avere udito un certo fracasso, il regolamento impone lo sguardo fisso all’altezza degli occhi e il maggiore mi è sparito di fronte per stramazzare all’altezza più o meno delle suole dei miei stivali, non posso vedere cosa gli è successo.
Uno dei due ghigna, guardando le insegne di tiratore scelto, strizza l’occhio all’altro
“Lascia perdere è un professionista, questi ammazzano solo standoci di fronte, e togliti dagli attenti, questo vecchio cane ha trovato quello che cercava da mesi, non so di che cosa stavate parlando, ma di certo è scoppiato come una bomba dopo avere tolto la sicura. sparisci becchino, noi non ti abbiamo neppure visto.
Esco dall’ufficio comando sereno come un fanciullo, i fatti d’altri non mi sfiorano, quando sei in guerra per le cause di altri, specie se non condivise, il solo riferimento sei solo tu e te stesso. Tutto il resto non appartiene al mio mondo.
La cantina del vecchio Ibranovjk, cieco e finto sordo serbo, mi offre un sicuro rifugio e una bottiglia di Slilovitz di vecchia data, con tinozza per un bagno salutare in acqua bollente versata dalla paffutella Jovancka Popunescka Dracma un fiorellino da 135 chili di lardo dal tanfo insopportabile, capace di stendere un sergente con un alito da aglio putrefatto … è una mangiatrice di fuoco capace di ustionare l’insolente con una boccata di Slilovitz infiammata. Gran donna Jovancka, arriva con una spazzola e sapone incominciando a strofinare cantando un’oscena canzone sulla mascolinità serba. Nei tafferugli nella bettola sottoterra mantiene l’ordine spaccando più di una mascella.
Bella vita, ricca di storie, quella del soldato.

Il mio amico nemico

Il nemico è un soldato uguale a me, con le stesse esigenze, con la stessa paura e se non hai paura non sopravvivi, perché la paura è un sistema d’allarme infallibile … tieni giù la testa per un attimo di panico e senti sull’acciaio del copricapo il proiettile scivolare con l’impatto di una martellata secca … non l’hai preso in pieno per una sensazione di paura. Sul fronte la paura salva la pelle e allarga la conoscenza con il nemico; ritorni alle linee a rotta di collo e cerchi la buca per ripararti, ti butti a capofitto e la trovi occupata da un nemico, è dentro in cerca di scampo e la prima mossa è la sua. Se non ti finisce è un amico, veste solo una divisa differente, parla un’altra lingua e ha in mano un’arma che non vuole usare contro un suo simile; non vuole avere davanti agli occhi un’altra vita spenta, non vuole sentirsi un assassino solo perché obbligato, ma è ancora un individuo capace di decidere per sè e per un altro. “Priviet tovarish” grida il siberiano, un piccolo uomo con gli occhi a fessura, tozzo di statura, vestito con splendidi stivali lapponi che invidio subito, gli stivali italiani sono una maledizione tra i ghiacci e i casi di congelamento degli arti mietono vittime. “Fermo compagno ” la mia mano sulla pala affilata si artiglia indecisa per colpire il piccolo giovane siberiano che neppure sa perché sta combattendo una guerra con un esercito di sconosciuti e che guarda la disperazione e la paura negli occhi del nemico che divide la sua stessa sorte. Ha la mano sul fucile ma non sullo sparo; lascio la pala e sistemo l’MP sul dorso, non è ferito, non è un suicida che incontri nella buca che ti fa saltare insieme a lui, è un ragazzo solo stanco della guerra come lo sono io. Tiro fuori lentamente dalla tasca una sigaretta oppiata forte, ma il siberiano la rifiuta e mi porge la fiasca da cui bevo una sorsata di caffè amaro; ho del cognac e il siberiano ne beve un lungo sorso da ingordo. “Spasiba tovarish”, grazie compagno. Fuori, nella terra di nessuno, sono settimane di corpo a corpo e le batterie non tacciono un istante, nessuno dorme e si rientra solo per caricarsi di munizioni e tornare in prima linea; io sono sporco, non mi cambio da settimane a parte l’infilare ogni pezzo di carta che trovo a contatto con la pelle, gli abiti non bastano per impedire che il freddo polare congeli il corpo e gli arti devono essere in perenne movimento come le scatole di percussione delle armi mosse ad ogni breve spazio di tempo. Anche il siberiano, come un automa, scarica e ricarica l’arma facendo scorrere il carrello del fucile; l’acciaio scotta e se lo tocchi a mani nude ti ustiona stappando lembi di pelle sanguinante. Un’esplosione ci copre di terriccio maleodorante, forse intriso di sangue rappreso e resti umani, ma meglio coperti da uno strato di fetida terra che dover correre come lepri in cerca di un nuovo riparo, le buche delle granate sono provvidenziali a patto di restarci senza muoverti e tutto sommato per entrambi è un buon ricovero per la notte. Tiro fuori pane secco e salsiccia gelata, ne spezzo la metà e la offro al nemico che guarda il cibo come un lupo affamato stralunando dalle fessure mongoli gli occhietti brillanti; lui mi porge delle patate nere, dure come pietre, il compagno russo se la passa molto male. Il nemico non mangia che patate marce e topi, che se hai veramente fame diventano gustosi insieme persino da crudi. Incomincia a nevicare lentamente, se non altro avremo un respiro sulla bassa temperatura artica che soffia da giorni, la neve è come una giornata calda e il suo biancore immacolato sembra voler purificare la terra di nessuno. Non si raccolgono più i cadaveri e non facciamo caso alle urla d’aiuto finchè non si spengono del tutto, non ne salvi uno sapendo di rimetterci la pelle, semplicemente eviti di pensarci e se arriva il tuo turno fai come accade sentendo un colpo di pistola da dove arrivavano i lamenti, naturalmente l’esercito punisce il suicidio e l’ufficiale diligentemente scrive sul suo libricino una nota di demerito che arriverà come un’onta di disonore alla casa del soldato traditore della patria, la famiglia verrà bollata. I Katyusha rovesciano sulle nostre linee una quantità impressionante di esplosivo ad ogni bordata e vanno avanti per ore e ore in un urlo infernale senza posa e sono devastanti, in grado di cambiare la morfologia delle linee per una profondità di 500 metri su fronti di chilometri, distruggono ogni forma di vita con battaglioni di carri polverizzati senza capire che fine hanno fatto: centinai di mezzi, depositi di munizioni, rifornimenti di carburante, vettovagliamento, ospedali da campo, cucine, posti di comando, ricoveri e trincee scompaiono per magia nel nulla, migliaia e migliaia di vite umane si perdono sulla carta cancellati da una linea di ripiego per essere rimpiazzati da nuovi battaglioni, dalle brigate carri, dalle artiglierie, dalla maledetta guerra che continua sulla terra di nessuno. sul carnaio congelato di un fronte di resistenza senza importanza. Il siberiano dorme sotto la terra coperta di neve. E’ un buon posto per una dormita e domani all’alba ognuno andrà verso i suoi. E’ bella la neve che scende calma tra i fuochi delle esplosioni; abbiamo imparato a dormire in mezzo a frastuoni incredibili, a non pensare al domani e a quello che siamo diventati. Riesco persino a sognare.

Kossovo – Montenegro

“Dai, cammina, stronzo.
Il sergente dette un colpo sul fianco dell’uomo col piatto del calcio del fucile, togliendogli il respiro. L’uomo ansimò e barcollò con sofferenza. Gli occhi erano grigi, spenti, piatti. Il volto emaciato, sporco, affilato nella fatica e nella sofferenza.
“Metti le mani sulla testa e cammina, testa di cazzo. – disse il Sergente dandogli un calcio sul polpaccio sinistro – “ti faccio vedere io a farmi fare ‘sta sfacchinata, montenegrino di merda.

Incrociarono dei soldati, che salivano lungo il sentiero, poi videro altri uomini che risalivano… piccoli, lontani di qualche gola più in basso. “Fra poco…” pensò il Sergente.
“Ehi, Sergè, com’è su da voi? Grigia come qua o avete un po’ di sole? – chiese uno dei soldati che stavano incrociando.
“Ma che, hai voglia di chiacchierare? Non rompere, come vuoi che sia in questo posto di merda? Piove sempre, qui… e poi con ‘sti testa di cazzo – accennò al prigioniero – da portare a spasso…
“Poverommini sono, Sergè, pure loro.
“Si, col cazzo.
L’altro soldato che stavano incrociando disse sottovoce al compagno: “Lascialo perdere che è una testa di minchia.
“Com’è la strada, giù? Si scivola? Siete solo voi e quegli altri, oggi?” – fece il sergente accendendosi il mozzicone di sigaretta che aveva preso dal taschino.
“E’ brutta, devi fare attenzione, si scivola… c’è solo il V plotone che sta salendo… e giù si fatica anche di più. Hai una cicca per me?
Il Sergente tirò fuori un altro mozzicone e lo diede al soldato. Poi diede uno spintone al prigioniero:
“Noi andiamo, addio.
Scesero con grande attenzione cercando di non scivolare sulla roccia fradicia, il prigioniero in silenzio, il Sergente che smadonnava, la pioggia che cadeva forte ed il vento che rendeva la giornata tagliente come una lama. Il sentiero era difficile, improvvisamente, ai lati, si aprivano dirupi profondi, la natura era inospitale, dura, fredda, viscida. Il secondo gruppo di soldati era passato da un pezzo, diretto verso una delle cime del monte, verso quel poco di caldo del campo.

Ora il Sergente era assorto, la piega della bocca era crudele, gli occhi erano vitrei. Disse al prigioniero di fermarsi e di voltarsi verso di lui. L’uomo si voltò e il sergente lo spinse con forza. L’uomo capì e gridò: “Cane!” in italiano, ma non riuscì a mantenersi in equilibrio e spalancando le braccia nell’ultimo tentativo di contrastare la spinta verso il burrone, precipitò nella profonda forra umida.
Il Sergente si sedette su una pietra lungo il ciglio del burrone, si accese un altro mozzicone di sigaretta, aspirò, guardandosi intorno silenziosamente. La pioggia non cadeva più, il vento ed il mondo s’erano fermati ma al Sergente non importava. Aspirò il mozzicone finché non si bruciò le dita, poi lo gettò nel dirupo. Si alzò e cominciò a ripercorrere la strada verso la cima del monte, verso il campo, pensando al rapporto da fare.
Il giovane Tenente era alto un metro e novantacinque, in confronto ai suoi uomini era un gigante. Volontario, la fronte ampia, intelligente, amante del mare, era finito negli Incursori di Marina a combattere una dura guerriglia sulle montagne montenegrine. I suoi uomini lo stimavano molto. Nelle situazioni pericolose non si tirava mai indietro, lui andava per primo, lui dava l’esempio. Ascoltò il rapporto del Sergente e mentre ascoltava pensava ai suoi uomini. Il Tenente non lo sapeva allora, ma tutti quei suoi uomini sarebbero morti durante la ritirata. Ma quel Sergente, no. Quel Sergente avrebbe finito qui la sua carriera. Lo congedò, poi prese carta e penna e scrisse al suo superiore una lettera dove chiedeva l’istituzione di una commissione d’inchiesta per l’omicidio di alcuni prigionieri da parte di quel verme.

László

Era stato un reparto di militari specialisti in guerriglia ad arrestarlo, su segnalazione di un gruppo di donne, in un piccolo centro musulmano distrutto dalle milizie serbe. Alla periferia del villaggio esisteva, da secoli, una bellissima chiesa ortodossa con annesso convento di pochi frati, da sempre; lì s´era rintanato e fu stanato, su istigazione dei contadini che, a modo loro, allertarono i militari sul possibile pericolo che andavano affrontando.
Periodicamente nel corso della snervante sanguinosa guerra domestica, faceva incursione nel villaggio, razziava specialmente bambini, ragazzi e giovanotti. Sempre solo, armato fino ai denti, sfrontato, arrogante, sapeva che gli uomini abili del paese erano alla guerra o alla macchia. Neppure i frati del convento, intervenuti pietosamente, erano riusciti a fermarlo. Catturava i giovani maschi con la minaccia delle armi da fuoco, che aveva abbondanti, legava loro la mani dietro la schiena col fil di ferro, li portava nella legnaia del convento e, con un rito che aveva della follia, tagliava loro la gola, buttandoli poi sulla strada. Si faceva consegnare cibo e bevande, tornava nella boscaglia fino alla successiva razzia. Mai con commilitoni giovani o anziani, lui poteva avere vent´anni o poco più. Vestiva l´uniforme slava con insegne di reparto e grado, delle quali pareva fierissimo.
Si era saputo di altre atrocità commesse dai serbi, stupri, mattanze di gruppi interi, sepolti poi in fosse comuni, anacronistiche rivendicazioni di sovranità perdute nel medio evo o ancor prima. E la componente religiosa faceva da catalizzatore quando non era possibile una motivazione più accessibile, specialmente per le popolazioni marginali che vivevano di agricoltura e pastorizia tradizionale, più disponibili alla pacifica convivenza pratica, interreligiosa e interrazziale.
Lazlo : una cariatide assurda, solitaria e introversa, determinata a distruggere quelli che nella propaganda politica erano stati indicati come figli del diavolo, oppressori, aggressori, anticristo e via delirando. Dagli interrogatori cui venne sottoposto emersero sconcertanti particolari sul suo addestramento, come ardito incursore. Completamente plagiato politicamente e moralmente, sentiva la sua missione altamente patriottica, liberatoria dall´odiato turco-albanese e mussulmano che calpestava la santa Serbia cristiana.
Dunque, perché i giovani maschi? Perché non si riproducessero. Perché quel modo barbaro di uccidere? Perché sono dei maiali e così ci hanno insegnato ad ucciderli. Al campo scuola i giovani più promettenti facevano pratica su giovani porci. Gli si ponevano a cavalcioni, con la sinistra afferravano saldamente il grugno alzandogli la testa e con la destra, armata di un coltello affilato, con un colpo netto gli aprivano la gola, da guancia a guancia. Poi i porci finivano alla mensa truppa.
Fu pochi giorni dopo che la sua immagine aveva attraversato le TV di mezzo mondo, che un parente chiese di poterlo vedere. Lui era ancora in uniforme, magro, con i capelli rossicci, approssimativamente tagliati corti, la barba incolta e gli occhi azzurri, sbarrati, allucinati, increduli, neppure umani, porcini quasi. Il parente era il nonno materno, un contadino piegato dalla fatica più che dagli anni; fece giorni e giorni di anticamera, praticamente senza mangiare e senza raccogliere, meno che mai usare, le monete che i passanti buttavano ai suoi piedi sulla scalinata del Palazzo di Giustizia. Quando gli interrogatori ebbero termine, il vecchio fu ammesso alla presenza del giovane e senza por tempo in mezzo, disse quasi interrogando
“Tua madre ha perduto i tuoi fratelli e sorelle, un braccio ed una gamba. Io sono vecchio, chi penserà a noi ora?”
Lazlo piegò appena un angolo della bocca, incomprensibile se fosse un sorriso, forse di compatimento, e si avviò muto per il corridoio, tra i carcerieri : finalmente piangendo.

Prigionia

Ero solo, finalmente. Nella cella faceva freddo e l’odore di sporco e di piscio non se ne andava mai, tanto che alla fine ci si faceva l’abitudine. Ero in isolamento, quindi era già tanto che mi fosse concessa un’asse di legno con sopra un materasso improvvisato. Le guardie mi avevano pestato a dovere prima di uscire, così adesso ero di nuovo del tutto innocuo e quasi incapace di muovermi. Mi avevano colpito entrambe le ginocchia, in modo che non potessi tentare di alzarmi ed io ero chino a terra nella pozza di sangue che lasciava il mio naso, rotto per l’ennesima volta. Mi chiedevano sempre se volevo passare in infermeria ma non aveva nessun senso. Loro non volevano rimettermi in sesto, ma solo prepararmi alla volta successiva, alla scarica di botte che sarebbe seguita a quella precedente. Ultimamente mi rifiutavo, almeno vantavo qualche calcio in meno e colpi meno potenti con i manganelli.
La dottoressa Kate quel giorno non era passata. Neanche quello precedente. Probabilmente non sarebbe venuta mai più. L’idea di essere il pasto preferito di un assassino non avrebbe certamente reso divertente la sua permanenza. L’avevo trattata male e ne stavo subendo le conseguenze. Bhè, almeno così sarei rimasto coerente, sarei rimasto me stesso fino alla fine. Respirai a pieni polmoni, ma a metà dovetti tossire: errore, la cassa toracica non si era ancora ripresa e distenderla così era stata una mossa azzardata. Avrei davvero potuto uccidere la guardia, se lei fosse stata vista quella notte. Gli avrei rubato il manganello e avrei spaccato la sua faccia da culo in poche mosse soltanto. Un altro caso in cui non sarei riuscito assolutamente a pentirmi delle mie mosse, perchè pregustavo già la possibilità di mettergli addosso le mani. Ma se lei non era stata vista allora, non c’era motivo. Ricordavo ancora i suoi occhi, spaventati e pieni di lacrime, che mi guardavano supplicandomi di proteggerla. Dio, l’avrei fatto senza nemmeno pensarci due volte. Avrei usato tutta la mia rabbia contro di lui e, per quanto dolorante e sedato, quegli occhi mi avrebbero dato la forza di distruggerlo in pochi minuti.
Dovevo dimenticarla. Lei probabilmente era quello che stava facendo ed era quella la cosa giusta. Già avere a che fare una notte con un carcerato doveva averle messo una bella adrenalina addosso, poi teneva abbastanza al suo lavoro da sapere che avere a che fare con me avrebbe peggiorato le cose. Non sarebbe riuscita a seguire i suoi compiti fino in fondo, almeno non con me. Per aiutarmi doveva essere distaccata, una vera professionista delle parole e dei raggiri mentali. Se solo fossi riuscito a togliermi dalla mente i suoi occhi, sarebbe stato tutto più semplice. Tutto sarebbe tornato normale. Io sarei tornato a essere incapace di difendere qualcuno, a meno che chiaramente non si trattasse di qualcuno che mi serviva. Lei mi aiutava a respirare. Ebbi la strana sensazione che il motivo per cui i miei polmoni riuscivano a funzionare di nuovo era perchè lei era li. Aprii gli occhi, per la prima volta da quando ero solo: davanti a me c’era il suo volto. Ci avevo preso allora. Era stato quel profumo dolce a tradire i miei sensi.

Vlorë

Vlorë, agosto, il contingente Interforze occupa un edificio mezzo diroccato, che noi Italiani, col nostro saperci arrangiare, abbiamo reso abbastanza vivibile: camerate da 10-12 posti letto, una cucina da campo dell’Esercito Italiano in piena efficienza, una grossa sala con un televisore munito di antenna parabolica, con alcune sedie funge da sala ricreativa, un ponte radio in continuo contatto con la sala operativa in Italia. Di fronte a questo edificio vi è un’altra struttura presidiata ed abitata dalla polizia militare Albanese, una specie di milizia pretoriana che, sulla carta ed in parte, combatte la mafia locale, ma più delle volte è concussa con essa. Il Colonnello A. che da sei giorni aveva sostituito il Comando del presidio Italiano, era stato sistemato in un alloggio d’emergenza, da condividere con un Capitano ed un Tenente Medico e si era reso subito conto della situazione quasi precaria e della sensazione di grande disagio con cui ogni giorno si doveva fare i conti. Non ci si poteva allontanare dal presidio da soli ma in gruppo, ed armati poiché gruppi di sbandati si spostavano in scorribande in cerca di razzie o di regolamenti di conti tra bande rivali. Nell’infermeria spesso si presentavano ragazzi feriti da armi da fuoco per non parlare di bambini che giocando con armi d’ogni genere spesso venivano colpiti da esplosioni o da pallottole sparate senza un motivo preciso o per qualche regolamento tra adulti! Quella sera il Colonnello si era sdraiato nel suo letto con una stanchezza profonda, il lavoro era davvero tanto, ma la sua spossatezza era più che altro psicologica; da quando era arrivato nella ex Albania i suoi occhi avevano visto solo miseria, povertà, abbandono e prepotenza. La guerra era da un pezzo finita ma quello che aveva lasciato alle sue spalle era un popolo tutt’altro che liberato dalla schiavitù , tutt’altro che risollevato da un’economia scellerata, era un popolo che non aveva ancora risolto nulla, anzi aveva amplificato i problemi che sempre erano esistiti allo stato latente. Per questo il Colonnello si sentiva come asfissiato dalle responsabilità, avrebbe dovuto comandare il presidio per tre mesi circa ed i racconti dei veterani del luogo non erano certo incoraggianti; molte di quelle persone, Marescialli, Sergenti, Ufficiali, e qualche civile, firmando l’assenso a compiere quella missione, avevano visto solo il lato economico della faccenda, ma lì i soldi assumevano una importanza secondaria di fronte alle esigenze di un intero popolo ridotto alla miseria!! Lui non era nuovo a queste missioni, era già stato a Pristina ma senza incarico di comando, aveva anche partecipato ad uno stage in Belgio come osservatore ONU, ma qui la situazione era davvero pesante!! Ogni notte di fronte all’edificio che era situato in riva al mare, si doveva assistere impotenti alle scorribande degli scafisti che, come negrieri autorizzati, portavano il loro carico umano verso l’Italia non sapendo se quel carico di vite avrebbe mai raggiunto la meta agognata! Si stava quasi addormentando, quando dietro alla tenda che fungeva da porta sentì la voce del Sergente Maggiore.
“Hmm… Comandante posso entrare un attimo? Dovrei parlarle.
“Vieni, vieni, dimmi pure!
“C’è anche il Maresciallo con me.
“Entrate pure.
“Comandante io e il mio collega siamo autisti e come sa ogni tre giorni, per evitare che la gente, come usa da queste parti, dia fuoco ai rifiuti, li raccogliamo e col camion li portiamo ad una specie di discarica appena fuori Vlorë.
“Sì lo so ed è una cosa ottima, quel fumo acre che serpeggia per tutta la città è insopportabile, almeno qui lo evitiamo!
“Bhè da domani noi ci rifiutiamo di andare a fare questo servizio!!
”Come sarebbe …. vi rifiutate? A parte il fatto che noi siamo militari e la parola, mi rifiuto, non dovrebbe essere nel nostro lessico, ma ditemi almeno il motivo!
“Comandante il motivo non si può spiegare, si può solo vedere con i propri occhi, e con la propria coscienza!! Ogni volta che scarichiamo l’immondizia, davanti ai nostri occhi si svolgono scene indescrivibili!
“Andiamo ragazzi, non esageriamo cosa può succedere nel buttare dell’immondizia!
“Deve vedere con i propri occhi, Comandante. Perché domani non viene con noi a vedere cosa accade? Poi potrà dirci se il nostro rifiuto e lecito o no.
“Mio Dio ne ho viste tante, voglio vedere anche questa. Va bene, domani quando siete pronti, verrò anch’io, così mi renderò conto.
Così dicendo si sdraiò sul letto, come a dire, ora lasciatemi in pace che voglio riposare! La mattina, dopo aver fatto colazione, il Comandante era solito fare una telefonata col suo cellulare alla moglie per sapere come andavano le cose a casa e per mantenere il contatto con il suo mondo familiare. Verso le 10, 30 mentre stava controllando la Sala Medica, il Sergente Maggiore si presentò
”Signor Comandante noi siamo pronti con il camion per il viaggio alla discarica.
“Eccomi sono pronto, un attimo devo dare disposizioni al Vice Comandante e poi andiamo.” Non appena fuori il presidio, Vlorë si mostrava in tutta la sua drammaticità: le strade, quelle poco transitabili, erano state rimesse in sesto dai militari della KFOR, per il resto gran parte della città sembrava respirare un’aria spettrale e d’abbandono. Carcasse d’auto depredate e bruciate, la rete fognaria da poco ripristinata era già in condizioni pessime, tutti i tombini erano scoperchiati. Se ricoperti, il giorno dopo erano di nuovo senza coperchio, venivano utilizzati per le stufe a legna che gli Albanesi si erano costruite nelle loro case, unico metodo per scaldarsi o cuocere il cibo, due grosse pietre e una lastra di tombino di ghisa sotto cui fare un fuoco. Talvolta la disperazione e la povertà fanno venire idee strane, come quella abbastanza lugubre, che fa capire la mentalità di questo popolo, di utilizzare le lastre tombali del cimitero monumentale Italiano dell’ultima guerra, per farci il pavimento di una parte del porto di Vlorë, dopo averle naturalmente rigirate occultando i nomi di migliaia di nostri soldati caduti in guerra. Tutto il percorso della città era costellato da cataste d’immondizia, date al fuoco, questo era il metodo usato dalla popolazione per smaltire i rifiuti, con il risultato di inondare di un puzzo terribile alla diossina tutta la città. Appena fuori Vlorë, iniziava la campagna dove il verde, alla faccia delle guerre, riemergeva sempre, nascondendo in parte le brutture che la città, nel suo marasma di ferro e cemento faceva saltare agli occhi; campi da poco sminati dalle truppe alleate europee, già davano frutti e verdure che si potevano trovare nei vari mercati della città. Dopo qualche chilometro i due camion italiani si avvicinarono ad un promontorio dall’aspetto piuttosto tenebroso, sopra nel cielo una miriade di gabbiani, corvi, cornacchie ed altri generi di uccelli svolazzavano come avvoltoi in cerca di carcasse. Già da lontano un’acre odore di putrefazione avvisava l’olfatto che la discarica era vicina. Non appena entrarono tra i mucchi d’immondizia, come fagocitati e poi espulsi dall’immondizia stessa, comparvero tanti esserini, dei piccoli zombie, quasi tutti bambini sudici a dir poco, grandi occhi in corpi magri e denutriti. Dapprima circondarono a distanza i camion, poi come guidati da un leader ad un fischio iniziarono a gruppi a salire da dietro il camion per buttarsi letteralmente sul mucchio; i più piccoli, bimbi che avranno avuto quattro cinque anni, venivano letteralmente scaraventati su, e questi non appena arrivavano a tiro di qualcosa la lanciavano giù ai compagni a terra.
“Vede Comandante che scena e questo non è niente vedrà più in là.
“Ma cavolo – rispose il Comandante – ma quanti sono? E vivono proprio qui in mezzo a questo schifo?
Mentre si avvicinavano al punto di scarico l’assedio si faceva sempre più fitto, qualcuno azzardava ad arrampicarsi allo sportello chiedendo la carità, o qualche cosa da mangiare, gridando in un italiano che dava i brividi per la perfetta pronuncia
“Soldato Italiano aiutami ho fame!!

Il comandante era senza parole, la scena era veramente allucinante, quegli occhi contornati da sudiciume sembravano pagare un tributo troppo alto, per colpa di adulti scellerati. Ad un certo punto il sergente maggiore urlò:
“Comandante, tanti così non si erano mai visti, non riesco più a camminare, ci stanno bloccando!!
“Fermati, basta, scarichiamo ed andiamo via, non si può resistere, questo è un inferno!!
Il sergente allora iniziò la manovra di scarico e piano piano girò il camion a marcia indietro per tirare su il cassone; con molta attenzione scaricò immondizia su immondizia con in mezzo decine di bambini che venivano sommersi, poi riaffioravano con in mano qualcosa, chi un pezzo di carne, chi del pane, chi una scarpa, mentre con accuratezza l’autista manovrava. Ad un certo punto un urlo agghiacciante squarciò quell’aria surreale, in pochi secondi vi fu un fuggi fuggi generale e tutti rimasero ad una decina di metri dai camion.
“Cacchio che cosa e successo!!
L’autista imbracciò il mitra d’ordinanza e uscì fuori, ma appena fuori, rendendosi conto dell’accaduto, cominciò ad urlare.
“Nooooo nooo, lo sapevo, lo sapevo …. non ci dovevo venire!!
E prese a singhiozzare. Il Comandante allora di corsa scese giù e quello che vide fu davvero straziante: il corpicino di un bimbo che avrà avuto appena quattro anni giaceva immobile sotto una ruota del camion, ormai senza vita, con in mano ancora una fetta di pane smozzicata!! Si guardò intorno e si rese conto di un silenzio terribile, perfino gli uccelli smisero di fare versi, tutto intorno sembravano solo occhi che guardavano con fare minaccioso, cominciando ad avvicinarsi. Allora il Comandante, prima che qualcuno perdesse la testa, estrasse la sua pistola ed esplose in aria mezzo caricatore. Scapparono tutti e come inghiottiti dall’immondizia sparirono.
“Lei sergente, salga sul camion.” Urlò il comandante.
“Maresciallo mi aiuti.
Così dicendo si tolse la giacca e vi avvolse con cura il corpicino del bimbo.
“Andiamo, voglio che almeno da morto non stia in mezzo ai topi, portiamolo al cimitero della città.

Mentre si allontanavano, gli altri bimbi, come se nulla fosse accaduto, si tuffarono sull’immondizia fresca che i camion avevano appena lasciato. Il Comandante, raggiunto il cimitero porse al guardiano quel piccolo fagotto, con voce commossa disse.
”Mi raccomando, lo lasci avvolto dentro questa giacca e gli dia degna sepoltura, domani vengo a controllare di persona!!
Poi si voltò ed una lacrima prese il largo dal suo volto, era una lacrima di rabbia ed impotenza, e subito il pensiero andò a suo figlio che tra due giorni avrebbe compiuto quattro anni!!

Si guardò introno tra le tante tombe sparse, ripetendo a se stesso più volte.
“La guerra e la cosa più stupida che l’essere umano possa fare, non lascia vincitori, non lascia perdenti, ma solo tanto dolore!!”

Momenti di vita

La neve continuava a cadere fitta, un’incessante cortina bianca che univa il cielo. basso e di un grigio uniforme, con il terreno, quasi abbagliante nel suo gelido candore. Avanzavamo faticosamente, affondando fino alle ginocchia nel manto bianco ed infinito. Erano giorni e giorni, ormai, che camminavamo. Il fronte, verso Belgrado, era stato dapprima sfondato e poi spazzato via. I serbi, determinati a liberare la loro terra dagli eserciti invasori, avanzavano inesorabili, spietati ed implacabili nella loro determinazione e nella loro ferocia. Avevamo avuto ordine di ripiegare verso le retrovie, e quindi di approntare una nuova linea di resistenza. Ma mentre noi ripiegavamo in quell’abisso di gelo che era la sterminata pianura, a trenta gradi sotto lo zero, senza indossare gli indumenti adatti per quel clima terribile, senza mezzi di trasporto per la penuria di carburante, senza cibo e praticamente disarmati, anche le nostre retrovie erano state costrette ad attestarsi ancora più indietro, decimate e massacrate, attaccate da più parti e da forze nemiche soverchianti.
E così quelle retrovie, sempre più simili ad un miraggio, noi non le avremmo mai raggiunte, trasformando quella marcia angosciosa in una disfatta senza fine; la nostra ritirata era divenuta prima una sconfitta, poi una fuga disperata.
Era la marcia di un’umanità sconfitta nel corpo e nella mente, vinta dalla storia, aggredita ed umiliata in ogni momento da quell’orribile natura gelida ed aliena, braccata e colpita da quei temibili e feroci nemici che erano i serbi-croati.
Guardavo i miei commilitoni, i miei amici diventati fratelli nella disgrazia, gli uomini che avevano diviso con me quell’esperienza tremenda che era stata la guerra; li vedevo marciare e arrancare accanto a me, davanti e dietro di me.
Poveri fanti dagli occhi spiritati e senza più lacrime, dai visi emaciati e sofferenti, dagli abiti stracciati, dalla mente sconvolta e straziata dall’orrore. In quell’infinita pianura innevata, un esercito sconfitto, una colonna di disperati, si trascinava penosamente, stremato dalla fame, falcidiato dalle armi dei serbi, massacrato dal freddo e dall’angoscia della fine imminente. Usavamo le poche forze rimaste per camminare, per aiutare un commilitone ferito, per chiudere gli occhi a chi non ce l’aveva fatta e si era arreso alla morte, troppo spesso benvenuta in quei giorni d’inferno. Con venticinque-trenta gradi sotto lo zero, il vento che ululava senza tregua, la neve che ti accecava, le scarpe rotte e gli abiti laceri e a brandelli, il liso cappotto troppo leggero per quel gelo, le orecchie congelate ed il muco del naso rappreso e incrostato, era francamente impossibile credere ai miracoli. Sapevi che quella sarebbe stata la fine. Lo capivi ogni minuto che passava.
Le nostre vite erano appese ad un filo sempre più sottile. E allora c’era chi imprecava contro tutto e contro tutti, chi impazziva e non la smetteva più di ridere, chi bestemmiava contro Dio, e chi quel Dio invece lo pregava, gli gridava tutto il suo smarrimento e la sua paura di uomo fragile e distrutto. Non è cosa semplice tradurre in parole lo straziante ricordo di quei giorni. Quando si vedeva un corpo disteso a terra, qualcuno andava a controllare se il disgraziato fosse ancora vivo: se ti trovavi di fronte ad un cadavere, come fossimo sciacalli della peggior specie, lo si spogliava degli stivali, o del cappotto. Se, al contrario, lo sventurato era ancora in vita, lo si lasciava lì: lo avrebbero spogliato quelli che ci cercavano.
Era un incubo senza fine e incredibilmente doloroso da rammentare. Quando, su una bassa e spoglia collina alla nostra sinistra, apparve sferragliando il primo carro armato con la stella rossa. tutti noi fummo quasi contenti di vederlo.
I serbi si stavano preparando a sferrare l’ennesimo attacco, e presto ci avrebbero fatti a pezzi, avrebbero spazzato via senza pietà noi cenciosi.

Continua……..

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