Sulla condanna di Davigo le mani della Boccassini

Forse alla fine la verità è quella che Piercamillo Davigo ha messo a verbale durante uno dei suoi interrogatori: «Il tempo passa e io invecchio». Come escludere che anche lo scorrere inesorabile e scortese degli anni abbia inciso, nell’aiutare il leggendario Dottor Sottile del pool Mani Pulite, ad infilarsi nel guaio che lo ha trasformato da inquisitore a inquisito, e poi da giudice a condannato? Implacabile il giudizio dei giudici: «Modalità carbonare (di Davigo ndr.), che appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionali».

Di certo c’è che le motivazioni depositate ieri della sentenza con cui il tribunale di Brescia ha inflitto a Davigo quindici mesi di carcere per rivelazioni di segreto d’ufficio lasciano aperte almeno due piste per spiegare come sia stato possibile che i verbali esplosivi del «pentito» Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria siano finite prima nelle mani di Davigo, poi in quelle di una sfilza di magistrati e politici romani e infine sui giornali. Nella prima pista, quella che i giudici ritengono provata, Davigo è l’unico colpevole. Nella seconda, più inquietante, lo scenario cambia, affiorano ipotesi più complicate: forse Paolo Storari, il pm che consegnò materialmente i verbali a Davigo come gesto di ribellione contro l’insabbiamento delle indagini sulla loggia, non è l’unico ad avere parlato troppo, e forse Davigo sapeva tutto già prima. Forse, si legge nella sentenza, bisogna chiedersi «se quella del sostituto sia stata davvero un’iniziativa self made o non vi sia stato, invece, un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra». Chi è il «mentore ispiratore» di Storari? Tra i colleghi che avevano consigliato a Davigo di fidarsi del più giovane collega, la sentenza fa un nome pesante: lo stesso imputato ha detto che Storari aveva «delle credenziali che venivano da Ilda Boccassini, magistrato di straordinaria sagacia investigativa che lo aveva avuto nel suo dipartimento (…) aveva una fiducia illimitata in Storari, questo me l’aveva detto».

Per i giudici di Brescia, era comunque una fiducia malriposta. Perché la furia di Storari (che nel frattempo è stato assolto) contro l’insabbiamento dell’indagine sulla loggia, dei verbali in cui comparivano magistrati, politici, generali, viene considerata dai giudici di Brescia del tutto immotivata e insensata: la cautela con cui i capi di Storari, ovvero il procuratore Francesco Greco e la sua vice Laura Pedio, gestivano in quei mesi le rivelazioni di un soggetto ambiguo come Amara sono segno secondo il giudice Roberto Spanò delle «difficoltà incontrate dagli inquirenti nella gestione di un materiale limaccioso, cosparso da una patina scivolosa su cui era arduo far presa (…) la scelta organizzativa improntata alla cautela poteva dunque essere ispirata non a colpevole titubanza o, peggio, a volontà di insabbiamento, quanto piuttosto a ragioni di garantismo, onde evitare ricadute pregiudizievoli ai soggetti coinvolti rispetto notizie di reato anemiche o, peggio, strumentali».

Sta di fatto che Storari, di sua iniziativa o spinto da un «mentore occulto», sclera e porta le carte a Davigo. E su quello che accade dopo la sentenza non ha dubbi: Davigo commette una lunga serie di reati, consegnando o raccontando i verbali a gente che non aveva nessun diritto di conoscerli. E lo fa con un movente preciso: in quelle carte viene indicato come massone e aderente alla loggia un altro membro del Csm, Sebastiano Ardita, ex amico di Davigo divenuto suo nemico giurato. «Le risultanze processuali dimostrano che l’imputato, lungi dal farsi promotore di una missione salvifica per la magistratura (…) abbia piuttosto inteso polarizzare chirurgicamente l’attenzione sul dott. Ardita rendendo precaria anche in seno allo stesso Csm la posizione di un componente che egli considerava ormai fuori da gruppo». Cortesie tra colleghi.

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