Nassiriya 20 anni dopo, tra presentimenti e negazioni

By Orlando Sacchelli (Il Giornale)

La mattina del 12 novembre 2003 a Nassiriya (Iraq) un camion cisterna pieno di tritolo mescolato a liquido infiammabile scoppia davanti all’ingresso della base Maestrale, sede della MSU italiana dei Carabinieri (Multinational Specialized Unit), causando l’esplosione del deposito munizioni e la morte di 28 persone, tra cui 19 italiani (12 carabinieri, cinque militari dell’Esercito e due civili) e nove iracheni. La strage sarebbe stata ben più grave se il militare di guardia all’ingresso non fosse riuscito a neutralizzare i due attentatori. Il camion, infatti, esplose sul cancello di entrata e non dentro alla base. La Maestrale rimase uno “scheletro” di cemento.

Il padre di una delle vittime a distanza di venti anni da quel tragico giorno, rivela alcuni particolari commoventi all’Adnkronos. “Sono 20 anni che ho un groppo alla gola”, dichiara Ruggero Olla, papà di Silvio. “Mio figlio aveva 32 anni, era rientrato dal Kosovo da 4 mesi. Quando si è prospettata la partenza in Iraq, lui non si tirò indietro. Mi disse ‘non sono un coniglio, se partono i miei reparti devo partire anche io, ed è andato. Ma lì è molto tosta, e lui sembrava quasi percepisse qualcosa, come un presentimento”.

Anche un militare di professione può avvertire il senso del pericolo e avere paura. O almeno un po’ di timore. Ed è proprio quello che avvenne a Silvio. “Non aveva mai pianto prima di partire – racconta suo padre – ma quella volta, mentre la fidanzata lo stava portando in aeroporto, richiamò a casa dicendo ‘Vi voglio bene’. Questo ricordo mi fa venire ancora i brividi”.

Ruggero Olla chiude con um’ara considerazione: “A mio figlio non piaceva stare dietro una scrivania, era abituato alla vita operativa. Ma in quella terra martoriata lui è morto, e mia moglie con lui, dopo 4 anni di agonia. Col risultato che lì la situazione è sempre un inferno, se possibile perfino peggiorata”.

Moris Carrisi, fratello di Alessandro (un altro militare dell’Essecito rimasto ucciso a Nassiriya, con altrettanta amarezza rivela che “sono passati 20 anni tra tribunali civili e militari, richieste e istanze per riconoscere l’atto eroico. Ma qui ‘eroi’ sono solo a parole. Fanno cerimonie in tutta Italia, ho ricevuto dai 10 ai 12 inviti – spiega -. E ancora siamo in attesa che qualcuno ci dica realmente perché non spetta loro la medaglia al valor civile. I ragazzi hanno risposto al fuoco, cercato di dare sostegno alle sentinelle che erano alla porta. Questa medaglia a noi familiari non serve, la mia famiglia ormai è decimata, mio padre se n’è andato con la tristezza nel cuore dopo i tanti dinieghi alle domande e alle istanze presentate. Non è che la medaglia al valor militare noi familiari ce la mettiamo al petto: è un riconoscimento a questi ragazzi andati in una terra martoriata per portare la pace”.

“Un eroe non si riconosce solo con una cerimonia – prosegue Carrisi -. La popolazione considera eroi i nostri caduti a Nassiriya, forse un po’ meno le autorità che dovrebbero concedere queste medaglie”. Poi il ricordo si sposta sulle emozioni forti, indelebili. “Mio fratello aveva 23 anni, lo avevo sentito la sera prima – racconta Morris – si era fatto il giro di tutte le telefonate, ha parlato con me, con mamma, con la sua fidanzata e infine con mia moglie. Era lì da un mese, lui era di scorta, sapeva a cosa andava incontro, eppure non ha mai detto nulla. Oggi sarebbe giusto che ci dicano per quale motivo non viene concessa la medaglia d’oro ai nostri caduti. Continuiamo ad avere fiducia nella giustizia, speriamo si risveglino le coscienze, che qualcuno si vada a rivedere il funerale, le scene di quando sono rientrati, di come è stata squarciata la base, del cratere che ha fatto la deflagrazione. Nassiriya è sempre storia, con o senza medaglia”.

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