By Giordano Tedoldi
Un episodio di intossicazione alimentare avvenuto nel luglio del 2021 in un rinomato ristorante, il “Piccolo Lago” di Verbania, dello chef stellato Marco Sacco, che ieri è stato condannato (insieme con la sua direttrice di sala) a due mesi e venti giorni di reclusione per lesioni colpose e commercio di sostanze alimentari nocive, con sospensione condizionale della pena e non menzione, ci dà lo spunto per svolgere un discorso, che avevamo in mente da tempo, sui cuochi star.
Chiariamo subito che Sacco, che si è detto «addolorato» per l’episodio- una partita di vongole contaminate dal mefitico norovirus, che causa diarrea, vomito e febbre, servite crude con un risotto a un pranzo nuziale- per noi è un cittadino come ogni altro, non un bersaglio, e, pagato il suo conto con la giustizia (che comprende il risarcimento di 8mila euro agli sfortunati coniugi, e 250 euro a ciascuno degli invitati, più 10mila euro di spese legali) sarà perfettamente riabilitato. E non ha nemmeno tutti i torti il suo avvocato nello stupirsi che dall’indagine siano stati esclusi il produttore, francese, delle vongole, e il distributore, mentre meno convincente ci appare la difesa quando sottolinea che le vongole, giunte al ristorante in confezione sigillata (e senza recare l’avvertenza di evitarne il consumo crudo), avrebbero dovuto essere sicure.
Un ristorante con qualche pretesa, stellato o no, deve prendere tutte le proprie precauzioni, specialmente se sta servendo un banchetto per oltre cinquanta persone, e non fidarsi ciecamente del controllo di qualità altrui. Ma quello che è accaduto al ristorante affacciato sul lago, e che si fregia di due stelle Michelin, dicevamo, ci permette di affrontare un discorso che, consapevoli di esagerare, potremmo definire una critica allo spirito del tempo: il tempo degli chef considerati artisti, geni, visionari, creativi; un po’ quello che accadde quando, negli anni Ottanta, i sarti diventarono improvvisamente “stilisti”, parola che, come si capisce esaminandola a fondo, non significa niente di preciso.
Tutti sappiamo che, oggi, se apre una dubbia bettola sotto casa, e nel primo pomeriggio ne vediamo uscire un figuro tutto tatuato che si fuma una sigaretta, pomposamente abbigliato da cuoco, egli, qualora avessimo l’ardire di chiedergli, recitando il ruolo di Lapalisse, che mestiere faccia, ci risponderà «Chef». Tutti quelli che spignattano in cucina sono chef. In trattoria, chef; in pizzeria chef. E c’è anche “l’hamburger dello chef”, e la “selezione di salumi” dello chef.
Ora, astraendo dal caso specifico del “Piccolo Lago” di Verbania, ma includendolo nel discorso generale, forse sarebbe bene cominciare a capire che tutta questa mistica dello chef, del ristorante stellato, della “esperienza culinaria”, è una boiata pazzesca. Mangiare fuori non è una cosa chic, non è nobile, e soprattutto non è andare a visitare l’atelier di un grande artista. È, udite udite, un’attività ricreativa e, per l’appunto, conviviale.
Un banchetto è il piacere di mangiare insieme con delle persone che sperabilmente non detestiamo troppo e, nel migliore dei casi, in compagnia dell’unica persona cui teniamo veramente. Del resto, nemmeno Platone, quando scrisse il suo Convivio o Simposio, come che lo si voglia tradurre quel grande dialogo (insomma, mangiare e bere insieme), forse perché si lasciò trascinare dall’appassionante tema che vi tratta, la definizione dell’amore, non si soffermò troppo a appioppare stelle o bicchieri alla qualità delle pietanze e delle libagioni. Sarà stato stellato lo chef di Socrate? O, come si dice a Roma, uno zozzone? A ogni modo, il banchetto in se stesso fu ugualmente piuttosto interessante, e duemilatrecento anni dopo ancora se ne discute. Ci si perdoni la digressione, ma forse è utile a chiarire che questa apoteosi del pranzo o della cena, trasformati in una sorta di rito snobistico dove rifulge, con tutte le sue stelle, lo chef-sacerdote, e il suo ristorante è il suo tempio in cui si entra devotamente (talora con l’esperienza iniziatica della visita alle cucine, solo per pochi eletti ovviamente) ci sembra non solo un fraintendimento completo del senso originario del mangiare insieme, ma anche, direbbe un noto attore, una cafonata. Lo chef-sacerdote, in realtà, è un cuoco, più o meno bravo, più o meno abile, certo, ma un uomo, e non deve stupire che possa combinare un pasticcio. I ristoranti stellati non saranno mense, certo, ma nemmeno quei luoghi mistici che ci vogliono far credere.