Diffamazione, assolto Daniele: “Ormai si va a processo pure perché qualcuno decide se un titolo è di buon gusto o cattivo gusto. L’unica cosa che conta dovrebbe essere se hai detto o no la verità, non che aggettivo hai usato per dirla!”

Intervista a cura di Giuseppe Tricarico

Gaetano Daniele non ha mai sostenuto le pene pecuniarie per i reati di diffamazione. Non gli piacciono. Per un motivo molto semplice: non dice mai una bugia.

“Avrò avuto una cinquantina di querele per diffamazione, ma mai una condanna. Sempre assolto. Il punto è che io attualmente suggerisco la linea editoriale, qualche titolo al massimo, ma quando ci metto la faccia, scrivo solo verità. Perché offendere, millantando, o strumentalizzando un fatto per meri fini personali, lo ritengo vigliacco, meschino”. Così Gaetano Daniele sulla seconda archiviazione per diffamazione.

Cosa ne pensa della questione querele temerarie?

Quando te le fanno, pure se hai ragione, ti freni, inutile negarlo. Io di eroi che vanno avanti fregandosene di tutto non ne ho mai visti. Ad ogni modo, solo in Italia c’è ancora il penale per la diffamazione come nel fascismo. Dovremmo avere una legge come quella inglese. Un giornalista, per il reato di diffamazione, dovrebbe rispondere solo in sede civile. Anche perché se io ti ho fatto un danno alla fine sarai pure più contento di avere dei soldi che di sapermi in galera, no?

Le querele sono più frequenti oggi rispetto a qualche anno fa?

Eccome. Prima davi del cornuto a Craxi e la passavi sempre liscia. Poi l’inversione a U ci fu con Mani Pulite. I politici da quel momento iniziarono a querelare con un’altra frequenza. Mi faccia dire che ritengo la “querelite” un’autentica malattia mentale che esiste solo in Italia. Si querela per due motivi, il primo: per non farti raccontare la verità. Il secondo: per evitare che tu possa scoprire il resto. E di solito è il resto quello che fa paura. Le querele temerarie vengono fatte principalmente da lestofanti, avvocati compresi. Gentaglia. Vigliacchi che non ti affronterebbero mai a viso aperto se non con la consapevolezza di essere tutelati dal sistema. E, questi ultimi, meglio starci alla larga. Sono quelle classiche persone che si sputano sulla mano e poi vanno a caccia del colpevole.

Lei va ai suoi processi o manda il suo avvocato?

A volte vado. Ammetto di trovare i magistrati donna più attenti ad ascoltare rispetto ai colleghi uomini che si sentono padreterni.

Un caso che ricorda più di altri?

In una causa dovetti difendermi per l’utilizzo dell’espressione “Figl e bucchin”. Il pm era un fighetto, profumava ancora di latte a lunga conservazione, che non poteva capire l’accezione che diamo alla parola (ingamba). Gli consigliai di leggere il libro di Montale, la sua poesia “Il Pirla”. La giudice donna, non riusciva più a fermarsi dal ridere. Mi assolse.

E queste ultime due?

Entrambe archiviate. La prima, mi fu addirittura detto dalla querelante di essere un miracolato. A volte, essere troppo sicuri di sé può essere controproducente. L’esperienza mi ha sempre insegnato che nei procedimenti civili e penali, non bisogna mai essere troppo sicuri di un risultato. È come il giocatore spaccone, alla fine perde sempre. O come il uappo che tende ad imitare personaggi di Gomorra, barba lunga e tatuaggi. Se lo affrontassi vis à vis, scapperebbe con la coda tra le gambe. Tuttalpiù può bucarti le ruote dell’auto quando dormi.

Però a sentirli è a vederli sembrano normali.

Nasciamo tutti normali. Poi ognuno di noi decide da grande cosa vuole fare, l’importante è camminare sempre sulle proprie gambe, e non su quelle degli altri. Nel caso di specie, si è teso la mano a dubbia cultura, mi riferisco allo stile di vita. Apparire per non morire. Il guaio è quando torni a casa e ti tocca mettere la testa sul cuscino. C’è chi prende Laila, chi Tavor e chi altro.

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