Da scappati di casa anticasta a “casta” è stato un attimo: soldi, auto di lusso e posti di lavoro fanno sempre più gola ai 5 Stelle

Il voto favorevole del Movimento 5 Stelle di pochi giorni fa sull’aumento dello stipendio  per i capigruppo della Camera denota un’ambiguità che ormai dura da parecchio tempo e che fa sorgere una domanda: al di là del merito e (volendo) anche dell’eventuale “bontà” della misura che è stata approvata nell’Ufficio di presidenza di Montecitorio anche da altri partiti, cosa è rimasto dei grillini “duri e puri” che scendevano in piazza contro i privilegi della “casta” e i costi eccessivi politica? La bandiera populista su denaro e poltrone che era stata affissa prima di entrare nei palazzi è stata infatti quasi interamente sfregiata. Ecco qualche esempio di giravolte pentastellate sul tema soldi e potere.

“Massimo due mandati, non di più”. Oggi fa quasi sorridere ripensarci ma, quattro anni fa esatti, Luigi Di Maio  ruppe il tabù dei due mandati con una proposta che consentiva di eluderne il limite non conteggiando la prima elezione nei Consigli comunali: era il cosiddetto “mandato zero”. Uno stratagemma per non intralciare la ricandidatura di Virginia Raggi – reduce da due mandati (come consigliera e come prima cittadina) -, poi effettivamente ammessa per farla correre ancora alla carica sindaca di Roma. Lo stesso Di Maio, tra l’altro, deciderà di lasciare il Movimento nel giugno 2022 anche perché consapevole che non avrebbe potuto più entrare in nuove liste elettorali con il logo dei pentastellati: scelte che non portarono molta fortuna a entrambi.

Ci sono due istantanee particolarmente curiose che coinvolsero nella primavera del 2018 Roberto Fico. La prima era una fotografia postata su Instagram dallo stesso presidente della Camera appena eletto in cui prendeva l’autobus per recarsi a Montecitorio; la seconda era il suo percorso a piedi verso il Quirinale circondato e scortato da una decina di agenti. Immagini che fecero discutere per via dell’esagerata ostentazione di volere apparire come un normale cittadino. Da terza carica dello Stato, tuttavia, dovette ben presto “cedere” (anche giustamente) all’auto di scorta per ovvie ragioni di sicurezza.

Il recente voto decisivo di Ugo Grassi – eletto nel 2018 con il Movimento 5 Stelle – nel Consiglio di garanzia di Palazzo Madama ha provocato lo stop del taglio dei vitalizi per gli ex senatori. I grillini si sono immediatamente indignati sul “colpo di mano del centrodestra”. A parte che Fratelli d’Italia e Lega si erano astenuti esattamente come il Partito Democratico (quindi dovrebbe essere tirata in ballo eventualmente anche la sinistra), resta il fatto che un ex M5s abbia deciso di cambiare idea sul ripristino, affermando: “Credo nello stato di diritto e nei principi dell’ordinamento costituzionale. Non farlo sarebbe stato in conflitto con la mia coscienza e in quello in cui io credo come giurista. Mi assumo ogni responsabilità della decisione che ho assunto”. Siamo sicuri che qualcun altro del Movimento non seguirà in futuro questa sua scia “garantista”?

A proposito di garantismo, come dimenticare le accuse rivolte agli avversari politici di non dimettersi una volta indagati? Naturalmente, quando la magistratura ha cominciato a torchiare pure i grillini, lo stesso discorso non è più valso; andando ben oltre l’avviso di garanzia. La Raggi, imputata per falso (e poi assolta) non ha mai minimamente pensato di lasciare il Campidoglio. Idem per quanto riguarda Chiara Appendino, recentemente condannata addirittura in appello a un anno e sei mesi per omicidio, lesioni e disastro colposi relativi ai fatti di piazza San Carlo: ha annunciato ricorso in Cassazione, ma non ha abbandonato il ruolo di deputata. Nonostante poi la loro contrarietà all’immunità parlamentare, qualcuno di loro ha spesso usufruito dell’insindacabilità per non finire a processo per diffamazione dopo essere stati querelati: Luigi Di Maio, Paola Taverna e Barbara Lezzi si sono appellati all’articolo 68 della Costituzione (le opinioni vennero considerate espresse nell’esercizio delle proprie funzioni).

C’è poi un ultimo (curioso) significativo aspetto che la dice lunga sulle capovolte grilline in termini dei privilegi della casta. Se il loro mantra è sempre stato quello di volere “restituire” metà del loro stipendio, qualche loro grillino ha voluto fare a un certo punto il “furbetto” per aggirare questa regola. In piena campagna elettorale per le Politiche del 2018 esplose infatti il caso “Rimborsopoli”, portato alla luce dall’inchiesta televisiva delle Iene: più di uno aveva presentato dei bonifici farlocchi. Nessun reato, per carità, ma l’indecenza morale c’era tutto.

Di Maio, candidato premier, si era detto certo che i “colpevoli” eletti (le liste delle candidature si erano chiuse pochissimi giorni prima) avrebbero rinunciato al proprio seggio: “Da noi le mele marce vanno via, negli altri partiti diventano ministri”, ribadì con orgoglio. Fortunatamente nessuno di loro sfiorò mai un ministero, ma tutti rimasero comunque attaccati alla propria poltrona di parlamentare per tutti i quattro anni e mezzo della scorsa legislatura. Del resto, non è semplice rinunciare a 14mila euro al mese: nemmeno per gli “anti-casta” per eccellenza.

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