Cimici illegali, trojan attivo dopo la fine delle indagini, ma per i Pubblici Ministeri se il fine dell’indagine porta a qualcosa, va bene!

Il trojan inoculato nel telefono di Luca Palamara avrebbe dato segnali di una sua presunta attivazione anche tre mesi dopo la fine delle intercettazioni disposta dai magistrati il 30 maggio 2019. Sul server che riceveva le captazioni del virus c’è traccia di un contatto datato 8 settembre 2019. Un «impulso» inviato dalla microspia a uno dei server della società che l’ha fornito agli inquirenti, la Rcs. Come se fosse ancora attivo.

L’ennesimo braccio di ferro sulla utilizzabilità delle registrazioni effettuate con il trojan nel cellulare dell’ex pm si è consumato ieri nell’udienza davanti al gup di Perugia. Da una parte la difesa dell’ex magistrato che ora chiede una perizia sul server che ha ricevuto i dati dal suo cellulare. Dall’altra la Procura guidata da Raffaele Cantone che rivendica la legittimità e dunque l’utilizzabilità di quelle registrazioni su cui si fonda l’accusa: «Rispecchiano i criteri e sono state fatte in modo rituale».

Su diverse anomalie stanno indagando i pm di Napoli e di Firenze, dopo che uno degli ingegneri della società fornitrice del virus aveva svelato che le registrazioni non finivano direttamente al server della Procura di Roma, come era stato disposto dall’autorità giudiziaria perugina, ma prima a un server intermedio, «di smistamento», che si è poi scoperto essere installato all’interno della Procura di Napoli. All’insaputa però dello stesso procuratore capo, Giovanni Melillo, che con Firenze – competente sui magistrati di Perugia – ha delegato accertamenti alla Polizia postale. E ieri in aula il vice ispettore Francesco Sperandeo ha riferito l’esito dell’ispezione su quel server napoletano: «L’ultima connessione (del trojan, ndr) risale all’8 settembre 2019 alle ore 20:46:46», mentre «l’ultima istruzione impartita al virus risulta in data 8 settembre 2019 alle ore 20:20:41», si legge nella relazione. Un giallo che non preoccupa il procuratore di Perugia Cantone, che ha ereditato l’inchiesta su Palamara da Luigi De Ficchy: «È un dato che può aprire una lettura ambigua, a nostro modo è però irrilevante. Ovviamente non c’è nessuna prova che sia stata fatta una registrazione ma c’è questo dato, un contatto che arrivava dal cellulare, come se ci fosse stato un impulso». Secondo la difesa di Palamara potrebbe non trattarsi di un «segnale» isolato, perché la Polizia postale «non ha potuto escludere la possibilità che le attività siano continuate» fino all’8 settembre 2019. «Potrebbe esserci stata un’indicazione di registrazione, ovvero il trojan comunicava di essere ancora presente all’interno del telefono. La Polizia postale non ha però aperto i file ancora esistenti sul server», dice il legale. Server che cancella i dati dopo averli trasmessi all’impianto di destinazione, in questo caso quello di Roma. Eppure «ci sono una ventina di cartelle, di file, riferibili a Palamara», precisa ancora il suo legale. Si rischia una battaglia a colpi di ulteriori relazioni tecniche e di periti informatici. Per la Procura di Perugia invece la questione degli impianti «è stata chiarita» e all’esito dell’ispezione non ci sarebbero più dubbi sulla funzione svolta da quel server: di mero transito di dati e non di ascolto. Nessun orecchio occulto, insomma. Il che salverebbe l’utilizzabilità delle intercettazioni. Su una possibile perizia il giudice decide il 4 giugno.

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