Di Maio va in Paradiso per disgrazia, per lui arriva la superpoltrona Ue. Ma scoppia il caso

Chi sa, fa. Chi non sa, invece, fa l’inviato speciale per l’Unione europea. Secondo un documento visionato dal Corriere della Sera, l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, “dopo un’attenta riflessione” ha indicato Luigi di Maio come “il candidato più adatto” all’incarico di inviato speciale per il Golfo Persico. All’ex ministro degli Esteri italiano verrà proposto “un periodo iniziale di 21 mesi, a partire dal 1° giugno 2023 fino al 28 febbraio 2025”. La strada di Giggino è quindi segnata. E lui, va detto, è stato molto abile nell’arrivare a solcarla. E non solo perché è stato bravo a cambiare pelle più volte. Ma anche perché ha imparato, da quando è stato al governo, che il silenzio è d’oro e che, spesso, viene ricompensato.

Dopo essersi candidato alle scorse elezioni politiche ottenendo ben lo 0.6%, di Maio è stato trombato dalla scena politica. Sparito. Scomparso. Non sarà stato facile per il masaniello di Pomigliano accettare di non esser più capace di parlare alla folle e di riuscire a raccattare, senza il simbolo del M5S alle spalle, il consenso più basso di tutte le liste. Che fare dunque, dopo esser rimasto a piedi? Far fruttare i contatti raccolti quand’era ministro degli Esteri e puntare a una carica di prestigio. Lavorando nell’ombra con un unico obiettivo: abolire la povertà. Per se stesso.

Quando, l’anno scorso, si è sparsa la voce di una possibile candidatura di Di Maio a inviato speciale per il Golfo, sono arrivate le prime critiche. E non solo dai partiti a lui avversi (oggi la Lega afferma che con questa nomina l’Ue insulta l’Italia), ma anche da quotidiani autorevoli come Le Monde, che gli aveva dedicato un articolo in cui il suo profilo ne usciva a pezzi: “Da ministro degli Esteri non ha avuto buone relazioni e non è percepito come una personalità di peso”, affermava Cinizia Bianco, esperta del Golfo al Consiglio europeo. E ancora: “Le sue competenze, soprattutto la sua conoscenza da debuttante dell’inglese e la sua scarsa esperienza nel Golfo, rendono curiosa questa scelta”, spiegava, sotto richiesta di anonimato, un diplomatico. Un dilettante, insomma. Che aveva fatto parecchi danni quando era alla Farnesina, alla faccia dell’interesse nazionale.

Era il gennaio del 2021 e, da ministro degli Esteri, di Maio decise di congelare le licenze per la produzione di 20mila bombe per aerei destinate agli Emirati arabi. Un’azione politica, si disse, in risposta ai crimini di Abu Dhabi in Yemen (anche se Giggino si dimenticava del ruolo dell’Arabia Saudita in quel conflitto). Non contento, però, il nostro stabilì anche di bloccare le forniture di pezzi di ricambio per la pattuglia acrobatica emiratina – le loro Frecce tricolore, per capirci – che non hanno alcuna funzione bellica. Uno sfregio per Abu Dhabi, frutto di un’ideologia, quella pentastellata, che non tiene conto della realtà e, soprattutto, della realpolitik. Gli emiratini, infatti, non la presero bene. Qualche mese dopo, bloccarono lo scalo di un volo che portava i giornalisti italiani in Afghanistan e, soprattutto, intimarono lo sfratto dei soldati italiani dalla base, strategica per il nostro Paese, di Al Minhad. Secondo Carlo Panella, in realtà, dietro questa decisione di Di Maio non c’entrerebbe solo la guerra in Yemen, ma anche il nuovo assetto del Medio Oriente, nato in seguito alle aperture tra Israele e Emirati arabi. Il blocco imposto da Giggino, afferma il commentatore, “aveva e ha solo lo scopo di marcare una posizione di forte critica nei confronti dell’Accordo di Abramo, siglato nell’agosto del 2020 tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, che ha rivoluzionato in senso positivo il Medio Oriente. Insomma, Di Maio e i Cinquestelle, con l’assenso dell’allora premier Conte, hanno voluto ribadire la loro tradizionale posizione favorevole all’Iran contro il quale, appunto, è stato siglato l’Accordo di Abramo. Un perfetto esempio della strategia di politica internazionale ispirata da Beppe Grillo che non a caso ora rompe con Conte perché non rinuncia a dettare al governo la sua agenda di politica estera filo iraniana e filo cinese“. Supposizioni, sia chiaro.

Però ci sono altri fatti concreti che testimoniano il fallimento di Di Maio, come l’arresto di Andrea Costantino, condannato a 20 mesi di carcere e impossibilitato a lasciare gli Emirati Arabi perché accusato di aiutare gli Houthi in Yemen. La realtà, però, secondo quanto raccontato dallo stesso Costantino in un’intervista potrebbe essere diversa: “Il mio arresto è legato alle pessime, direi ormai compromesse, relazioni diplomatiche fra Italia ed Emirati. L’allora ministro Luigi Di Maio ha rotto, a inizio 2021, un contratto, che esisteva dal 2016, relativo alla vendita di armi agli Eau, provocando così la loro reazione. Non è un caso infrequente nei Paesi del Golfo o in Russia arrestare delle persone per usarle nelle trattative per scambi politici, con accuse che sono del tutto inesistenti”. Sono gli stessi emiratini a dirgli che il suoi rilascio “per loro non è una questione di denaro, ma una questione politica di principio”.

Un flop diplomatico senza paragoni. Che ora gli permette di tornare sul luogo del delitto. Da vincitore.

Pubblicato da edizioni24

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