Biden cambia strategia ma potrebbe essere un boomerang. Ecco perché il cambio di rotta americano è un autogol

Risulta arduo, se non impossibile, accostare il ritratto di quel Joe Biden che, nel mezzo dell’assalto a Capitol Hill, invitava i suoi connazionali e il suo avversario alla calma smorzando i toni, al Joe Biden di oggi. Così come è complesso riuscire a comprendere come il presidente che denunciava – a ragion veduta – le mosse imminenti di Vladimir Putin ora non sia capace di dare alcun contributo negoziale energico per la risoluzione del conflitto in Ucraina.

Il discorso a Varsavia, circa un mese fa, e tutta la regia che lo accompagnò, ha avuto l’effetto contrario rispetto a quello desiderato, o quanto meno desiderabile. In quell’occasione, il ricordo delle parole di Giovanni Paolo II, il primo Papa polacco, e di Madeleine Albright contro la dittatura sovietica sono state spazzate via dalla parola “macellaio che non può restare al potere” che ha attirato l’attenzione mediatica, più di tutto il resto, agendo come fulmicotone in quel di Mosca. Nel mezzo della crisi più grave dalla Seconda guerra mondiale, le parole sono quanto mai importanti, e dosate, soprattutto se sei il presidente degli Stati Uniti d’America. Un’uscita poco saggia, da gaffeurincancrenito, costretta ad essere edulcorata dal suo entourage. Ma l’aggressività da parte della Casa Bianca si ritrova anche nell’atteggiamento, poco lungimirante, di non avere alcuna strategia per favorire la de-scalation: sembra di essere nel mezzo di una paralisi cognitiva, in attesa millenarista che qualcuno o qualcosa modifichi il corso degli eventi. E se non è Biden a dirigere questo cambio di passo, tantomeno nella sua Camelot dissociata sembra esserci un illuminato o illuminata che abbia ereditato il sano seme della diplomazia: Kamala Harris non pervenuta, Jake Sullivanmomentaneamente silente, Antony Blinken meglio che resti dov’è.

L’unica voce autorevole che è giunta in questi giorni è quella del lapidario segretario alla Difesa Lloyd Austin: “Siamo qui per aiutare l’Ucraina a vincere la battaglia contro l’ingiusta invasione della Russia e per costruire le difese dell’Ucraina per le sfide di domani”. Lo ha dichiarato lui stesso aprendo il vertice straordinario a sostegno dell’Ucraina, dove su invito degli Stati Uniti si sono incontrati i ministri della Difesa di 40 Paesi a Ramstein, in Germania.

La speranza, ha aggiunto Austin, è che “questo gruppo se ne andasse con una comprensione comune e trasparente dei requisiti di sicurezza necessari per l’Ucraina, perché continueremo a muovere cielo e terra per poterli soddisfare”. Il viaggio a Kiev “ha rafforzato la mia ammirazione per il modo in cui le forze armate ucraine stanno impiegando le proprie competenze”. L’Ucraina, ha concluso Austin, “crede chiaramente di poter vincere, e a questo crediamo anche tutti noi”. Austin fa bene il suo mestiere, occupandosi di Difesa, e null’altro può se non occuparsi di strategia militare e del sacrosanto dovere di sostenere un Paese invaso. Ma la domanda è: dov’è la diplomazia americana? Sebbene i canali non ufficiali e silenti esistano e si spera siano al lavoro, di effetti dirompenti, al sessantacinquesimo giorno di guerra non se ne sono visti affatto. E le ragioni, da Washington, sono almeno due: la prima, è indubbiamente legata alla debolezza di pensiero e azione di questa amministrazione; la seconda, alla più generale abdicazione americana al suo ruolo diplomatico. E la fuga rocambolesca dall’Afghanistan ne è stata un triste prequel.

Così, Joe Biden non riesce a far altro che invocare il Lend-Lease Act del 1941, rassicurando i connazionali: si dice “non preoccupato” dopo i dati sul Pil, che si è contratto dell’1,4% nel primo trimestre. Un calo a sorpresa che ha alimentato i timori già diffusi di una recessione americana. Dei 33 miliardi di dollari stanziati per Kiev, 20 sono per aiuti militari, per sostenere l’Ucraina nella guerra contro la Russia, altri 8,3 miliardi di dollari di aiuti economici serviranno ad aiutare il governo ucraino a rispondere alla crisi immediata, mentre circa 3 miliardi di dollari sono destinati a finanziare l’assistenza umanitaria e a fronteggiare l’aumento dei prezzi delle forniture alimentari globali a causa dell’aggressione russa. In tutto questo la parola “negoziati” scompare dal lessico progressista, che si fa esclusivamente bellico, senza prospettiva, senza progetto, tantomeno idea di sé. E se qualcuno pensava, un mese fa, che fosse una strategia per lasciare il posto all’Europa, facendo un passo di lato da padre nobile, adesso il sospetto è che a Washington la strategia si sia fatta meramente pasticciata e incolore.

Davanti a sé Biden, ha un “autunno caldo”. Se i Democratici perdessero Camera e Senato a metà mandato, come molti si aspettano, ciò potrebbe cambiare le dinamiche per il 2024, favorendo l’ingresso di Trump nella corsa al 2024. Il GOP già annusa la sfida interna, al di là di una ricandidatura di Donald Trump o meno.

Al 27 aprile 2022 il tasso di disapprovazione della presidenza si attesta sul 52,5%, trascinando con sé anche la vice Harris: tuttavia, Biden appare un incumbent atipico. Sembra quasi che gli appuntamenti elettorali non lo scuotano, che il cambio di passo non gli urga, che sia sordo ai timori interni, quelli che hanno generato Capitol Hill e che hanno portato il Black Lives Matters in strada. Il presidente non parla ancora di futuro, sebbene i rumorsvogliano che abbia confidato al suo fede ex n.1, Barack Obama, la ricandidatura.

Secondo il monitoraggio trimestrale di Morning Consult Political Intelligence, sempre più elettori ora disapprovano le prestazioni lavorative di Biden in ben 40 stati, a seguito di cali a due cifre del suo indice di approvazione netto da quando è entrato in carica nel gennaio 2021. Biden è contestato con tassi a doppia cifra in 33 stati, a partire da enclave conservatrici come West Virginia e Wyoming fino a campi di battaglia che sono stati fondamentali per la sua vittoria nel 2020, come Arizona, Pennsylvania e Georgia. In soli 10 stati e nel Distretto di Columbia vi è maggiore approvazione, sebbene anche qui gli spread si sono ridotti drasticamente dalla fine del primo trimestre del 2021. Anche nello Stato natale di Biden, il Delaware (in cui ha vinto di quasi 20 punti percentuali nel 2020 e dove gli elettori lo avevano precedentemente eletto senatore per sette mandati), gli elettori sono fortemente divisi sul suo rendimento.

Nessuno può ancor a predire come questa America disgiunta digerirà il conflitto in Ucraina. Quello che sappiamo, di certo, è che reagirà scomposta di fronte all’inflazione che galoppa e allo spauracchio della recessione. Uno spettro talmente inquietante da generare dibattito intorno alla opportunità o meno di rimuovere alcuni dei dazi imposti alla Cina durante la presidenza Trump, nel tentativo di alleviare le importazioni da alcune voci che pesano sull’andamento generale dell’inflazione. Stando così le cose, Biden ha poche chance di non essere crocifisso in autunno: per il 2024, invece, tutto può ancora accadere.

Pubblicato da edizioni24

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