[Esclusiva] Il Prof. Marco Plutino a ith24: “La linea Zingaretti-Orlando è stata fallimentare. PD da rifondare sull’agenda Draghi”

Prof. Dott. Marco Plutino
‘Docente Università di Cassino

Intervista a cura di Gaetano Daniele

Professore, lei è anche un militante del Partito Democratico. Vogliamo parlare della grande crisi che attraversa il partito, stimolati dal suo commento di ieri su HuffingtonPost in merito alle dimissioni di Zingaretti. Non è stato troppo duro?

“Avrei potuto continuare per ore intere, come disse una volta Forlani ai giornalisti che dopo averlo ascoltato per lunghi minuti, sbraitarono: “Presidente ma non ci ha detto niente!”.

Lei contesta tutta la gestione, non ultimo il modo in cui Zingaretti si è dimesso.

Sicuramente. Un modo poco coerente a chi ha fatto dell’antirenzismo, con i sui caratteri veri o presunti, una ragione politica. Messaggi sui social e comparsate televisive. Il mancato preavviso dei leader del partito su cui si è poggiata la sua segreteria forse si giustifica perché Zingaretti voleva il fatto compiuto. Pare che in precedenza almeno un altro paio di volte informato gli altri della sua volontà di dimettersi, era stato dissuaso. Ma l’invio delle dimissioni agli organi di partito solo il giorno dopo le dichiarazioni sui social, o averle preannunciate a Conte ma non ai Presidenti del Consiglio e della Repubblica difficilmente si comprendono, se non nell’ambito di una gestione poco lucida da parte di una persona perbene ma inadeguata“.

Di questo magari parliamo dopo. Restiamo sulle dimissioni e sul seguito. Non le ha ritirate, quindi l’assemblea del Partito Democratico non potrebbe invitarlo a restare.

“Esatto. Dovrebbe semmai essere rieletto segretario in assemblea, cosa in teoria possibile ma che lui stesso ha smentito. Faccio notare per inciso che le dimissioni hanno azzerato discussioni a lungo attese sulla linea politica e sulle quote di genere. Effetti collaterali non da poco. Ora il partito è precipitato in una crisi e deve decidere in pochi giorni tra un reggente per andare a congresso anticipato o un segretario che completi il mandato secondo la scadenza originaria“.

Reggente o Segretario?

“Sono due soluzioni più simili di quanto sembri, nella loro non adeguatezza alla situazione. I passaggi politici più importanti sono molto ravvicinati, quindi non c’è tempo nel caso di fare un congresso serio nel frattempo. A questo punto un traghettatore relativamente al di fuori dai giochi potrebbe avere serie difficoltà ad essere riconosciuto come leader pro tempore. Un segretario vero e proprio calerebbe in un partito con assetti superati e che ha delegittimato l’elezione delle cariche da parte delle assemblee: i primi grillini siamo stati noi. Il partito oggi non è certamente più unito di ieri, anzi. Zingaretti aveva ragione sull’ipocrisia della richiesta del ritiro delle dimissioni in cambio di unità. Semmai la richiesta aveva un senso per organizzare meglio la transizione, non certo come conferma di una fiducia politica che di fatto non c’era più“.

Ma Zingaretti con chi ce l’aveva?

“Certamente non con chi lo ha sempre criticato. E’ stato chiaro, ha parlato di partito governato in tutti i passaggi salienti con consenso pressocchè unanime a cui è seguita una solitudine improvvisa e avvelenata prodotta da un fuoco amico. Ricordo un particolare importante: “Base riformista”, la corrente di Guerini e Lotti, aveva sostenuto Martina al congresso, ma poi era entrata in segretaria e quindi nella maggioranza. Con i seguaci di Martina e Giachetti in maggioranza o fuori dal partito, l’unica componente di rilievo rimasta fuori dalla linea era quella di Orfini, cioè una parte di quelli che erano stati i “giovani turchi” e singole personalità come Nannicini, che aveva avuto un ruolo importante nella mozione Martina. La maggioranza zIngarettiana aveva in Orlando – l’altra parte degli ex “giovani turchi” – l’uomo forte, e nelle componenti di Areadem di Franceschini e “Base riformista” le altre due espressioni a supporto. Nelle ultime settimane quest’ultima – che ha ampio spazio nei gruppi parlamentari – aveva utilizzato toni molto aspri. Anche da Areadem c’erano state prese di posizione isolate ma insolitamente forti (penso a Castagnetti, notoriamente vicino al Quirinale). Infine nelle ore precedenti un paio di post dell’ex ministro Provenzano, vicinissimo a Orlando, avevano mollato Zingaretti sul “contismo”, ponendo il tema dell’identità. Scoperta tardiva, ma che ha fatto forse capire a Zingaretti che era rimasto solo“.

Eppure si è levato poi un coro unanime per farlo restare.

“Però attenzione. Base riformista, che chiedeva a gran voce il congresso, ha riaffermato che avere idee contrarie non è lesa maestà. Queste idee già si erano palesate in occasione della crisi del Conte bis, e ad un certo punto sposate anche dall’area di Franceschini. Zingaretti però non ne aveva fatto un caso. E’ per loro iniziativa però che Conte, che resisteva all’idea, fu spinto a dimettersi, sia pure in uno scenario tendente al rilancio della maggioranza. Poi si sa come è andata, la caccia ai responsabili non ha – per fortuna – prodotto frutti. Diverso il discorso per chi ha condiviso tutto dall’inizio alla fine, pure la sostanza del “Conte o morte”, proponendo fino ai tempi supplementari mediazioni improbabili o elezioni che il Capo dello Stato già aveva ritenuto poco praticabili, pur di non consegnare una vittoria politica a Renzi. Solo che la vittoria politica altrui si evita opponendogli politica“.

Appunto. E Zingaretti non dice di aver lasciato un partito non isolato, tornato al governo, con una prospettiva politica?

“Certo che lo dice e lo rivendica, e apparentemente ha qualche ragione. Ma in primo luogo il costo di uscire dall’isolamento è stato troppo elevato, perché ha portato a distinguere sovranismo e populismo, e populismi buoni e cattivi. Abbiamo smarrito la nostra identità, fatta come sempre di distinzioni. In secondo luogo i risultati vanno letti nei contesti. Renzi ha lasciato un partito al 18% con sovranismo e populismo alle stelle, oggi sappiamo anche grazie a campagne di disinformazione organizzata, ma comunque sia. Zingaretti ha tenuto per due anni il partito ad una percentuale di qualche decimale superiore mentre i Cinque Stelle perdevano la metà dei consensi, milioni e milioni di voti. Non uno è tornato al Partito Democratico. Un’impresa che ad impegnarcisi non è facile riuscire“.

Però almeno Zingaretti ha subito delle scissioni.

“Anche Renzi, con i Bersani e Speranza, portandosi indietro una persona che si chiama D’Alema. Certo Zingaretti ha subito scissioni sul versante riformista: Calenda e Richetti, poi Renzi e i suoi. Al momento Orlando le considerò irrilevanti. Poi di recente le ha utilizzare per spiegare le percentuali deludenti del partito, attribuendo a quelle scissioni i numeri risultanti dai sondaggi. Ma non è certo che quei voti siano tutti del Pd, quindi… Inoltre a fronte di uscite sicuramente importanti ci sono stati anche degli ingressi, come quella del gruppo di Boldrini, annunciato con fanfare. Che tra l’altro ha portato un disastro nella comunicazione“.

Cioè?

“Dato che le segreterie da un pezzo non vengono prese sul serio come luoghi di elaborazione delle politiche dove mettere i migliori, ma si preferisce spartire in base a bilancini di vario tipo, ecco, nella spartizione la comunicazione è stata data ad una persona vicina alla Boldrini assolutamente a digiuno della materia. Restano i meme su “il Pd ha una parola sola, Conte” e tante altre delizie. Immagino il viso di Mattarella. Danni duraturi. Eppure attorno al Partito Democratico per anni ci sono parecchi comunicatori di alto livello, delle più diverse tendenze interne“.

Però resta e Renzi aveva isolato il partito in una sorta di vocazione maggioritaria veltroniana però riportandolo a numeri bassissimi.

“Certamente, il fallimento di Renzi come governo ha qualche attenuante ma è indiscutibile. Il suo fallimento sul piano del partito portò a denunce analoghe a quelle che oggi fa Zingaretti, e fatte già da Veltroni all’esordio del Partito Democratico. Non cambia niente. Tiro al leader, correnti militarizzate, competenze di area diffuse ma che preferiscono restare lontano dal partito o quanto entrano sono emarginate o non valorizzate, conformismo e unanimismo di facciata, organismi decisionali svuotati, amministratori locali che restano alla finestre nelle grandi battaglie nazionali mettendo nei guai i segretari nazionali (chiedere a Renzi). L’elenco sarebbe lungo. Detto questo l’ossessione verso Renzi copre solo dei vuoti di identità, di programmi e di visioni“.

Già. Si continua a vedere Renzi dietro le critiche della corrente di Lotti e Guerini. Ci sarà qualcosa di vero?

“C’è di sicuramente vero quello è oggettivo. Secondo me questa ossessione è sbagliata e si basa su una ricostruzione fantasiosa della rottura tra Renzi e una parte dei suoi sostenitori. Renzi ha fondato un partito concorrente del Pd, e questo è un fatto: Renzi vuole massimizzare i consensi a spese di chiunque. Legittimo. Però non ho mai creduto alla teoria delle quinte colonne per distruggere il Pd dall’interno. Credo meno ancora ad un ritorno di Renzi nel partito. Spauracchi. E’ vero invece che l’alternativa a Renzi è stato lo schiacciamento sul populismo, l’assistenzialismo e lo statalismo. Ma su questo i Cinque Stelle sono molto più bravi di noi. Ed ecco che al governo con la Lega furono schiacciati, nel governo con il Pd pur proseguendo la loro crisi all’opinione pubblica è accaduto che, nonostante avesse mutato idea su decine di dossier, del Pd non si ricorda nulla, dei Cinque Stelle almeno la riduzione del numero dei parlamentari e il reddito di cittadinanza. Senza entrare nel merito, due grossi risultati“.

Ma Zingaretti ha un po’ di ragione a lamentare di aver condiviso tutto ed essere rimasto solo?

“Sicuramente, ma questo vuol dire che non conosce questo partito. Però mi lasci dire che ci sono piccole minoranze che non sono entrate in segreterie e si sono opposte in nome del riformismo a tutte le principali scelte di linea politica, dallo schiacciamento sui Cinque Stelle, alla riduzione del numero dei parlamenti, all’insistere sul raccattare trovatelli in parlamento per far proseguire una esperienza esaurita come il governo Conte bis. L’ho scritto nell’articolo da cui siamo partiti, si tratta del gruppo di Orfini e del senatore Nannicini, che trova un certo spazio su quotidiani riformisti come Domani, il Foglio e non solo. Minoranze inascoltate e i cui diritti stati in più di una occasione calpestati. Basti pensare alle direzioni con gli assenti conteggiati come presenti e votanti a favore della linea della Segreteria, ai dibattiti strozzati, allo svuotamento del Nazareno. In alcuni dirigenti c’è stata quella protervia di cui hanno accusato a lungo Renzi. In Zingaretti un’incapacità di gestire il pluralismo per un segno caratteriale e per un retaggio culturale. Non ho condiviso la sua linea, ma il tratto umano di Zingaretti non si discute

L’avversario accreditato di Zingaretti era Bonaccini. Ora si parla di Fassino, Finocchiaro, Pinotti.

“Questa cosa di Bonaccini non la comprendo, se non alla luce del precedente costituito da Zingaretti di un presidente di regione che diventa segretario a simbolo di una vittoria nella propria regione. Non perché Bonaccini non sia bravo, lo è eccome, ma perchè rientra ha affermato a lungo, e forse afferma ancora, che il chiarimento e poi la crisi del governo Conte non andavano aperte, che Renzi è stato “irresponsabile”, che il governo Conte andava rilanciato. Ora, a parte che giudichiamo gli altri per come fanno politica anziché farla, ma non comprendo questo come si concili con un atteggiamento di pieno sostegno al governo Draghi. Una personalità alternativa avrebbe dovuto chiedere un superamento della linea Zingaretti-Orlando, chiedendo al partito di fare politica, di prendere sul serio le richieste di Renzi (che erano anche quelle del Pd, per lo più). Invece a Renzi non si volle cedere nulla, difendendo Azzolina, Bonafede, il Recovery scritto da tre collaboratori di ministri, tutti stretti a Conte riferimento fortissimo del progressismo. Oltre ai “dissidenti” citati, ho sentito parole chiare da Madia, da Morando, qualche volta da Gori, ma non da Bonaccini. Ne ho stima ma vorrei comprendere in cosa rappresenta un’alternativa a questa linea fallimentare. E poi mi lasci dire che questa cosa degli amministratori locali mi ha un po’ stufato. Renzi era un amministratore locale, prima di lui Bersani era un amministratore regionale (come Zingaretti e Bonaccini). Di che parliamo?“.

Ma gli amministratori scalpitano.

“Se è per un partito migliore lo capisco. Il Pd ha grandi amministratori, soprattutto nelle città medie. Sicuramente gli amministratori sono una riserva da cui attingere classe dirigente ma vorrei notare su questo piano che la riduzione dei parlamentari ha tagliato le loro chances di andare in parlamento. Eppure non li ho sentiti durante la campagna referendaria, ed ero piuttosto attento. Poi vorrei che fosse chiara una cosa, in risposta ad affermazioni frequenti dell’ottimo Matteo Ricci: gli amministratori sono forti di un consenso personale, stanno a contatto con la gente, è vero, ma nei congressi sono perfettamente inseriti nelle filiere di potere. Non dimentichiamo che i congressi si fanno sulle tessere e le tessere ce le hanno gli amministratori, non certo i capi di Roma. In cosa, salvo eccezioni personali, gli amministratori sono alternativi a questo Pd? Eppoi: al di fuori di un certo pragmatismo, cosi li accomunerebbe?

C’è qualcosa da salvare?

“Per forza. Il Partito Democratico resta un partito organizzato, pieno di competenze, soprattutto di area, che si tengono lontane dalla militanza, spesso svilente. Amministratori, competenze, sacche di sincera militanza sono i serbatoi da cui ripartire. Ma Statuto e regole materiali di funzionamento rendono l’impresa quasi impossibile“.

Però bisogna fare presto. Agenda Draghi, Quirinale, Recovery e vaccini. Oggi, non tra due anni.

“Questo, che è verissimo, mi deprime. L’Agenda Draghi è un po’ la nostra agenda storica, oggi la lasciamo ad altri, perfino a Salvini (almeno a parole), perché abbiamo abbracciato il populismo buono. Il governo Draghi doveva essere promosso dal Pd, che invece fatica a stargli dietro e sentiamo dire a Berlusconi di essere il primo sostenitore e a Salvini di essere il vice-primo senza che non venga una parola da qui. Per il Quirinale non c’è più un piano, e se c’era non c’è più. Personalmente ritengo che Draghi sarebbe più utile a Palazzo Chigi, e in questo caso vedo poche alternative ad una riconferma di Mattarella, se volesse. Altri scenari mi sembrano nell’attuale confusione rischiosi. Infine “recovery” e vaccini: in queste settimane stiamo davvero comprendendo quanto il governo Conte fosse un tappo di immobilismo e quali enormi problemi ci ha lasciato. Draghi sta lavorando in chiave internazionale ed europea con un attivismo e un’audacia straordinaria, che si fatica a vedere da qui. Credo che i risultati arriveranno e, parliamoci chiaro, solo uno come lui potrebbe portarli. Prima stavamo ammassando polvere sotto il tappeto. Ci siamo fermati prima del baratro, e non è merito del Pd, purtroppo, averlo evitato“.

Quindi “forza Draghi” e sveglia al Pd.

“Quindi viva l’Italia. Le posizioni del Partito Democratico, sicuramente scarsamente in sintonia con il ruolo di garante della tenuta del sistema svolto dal Quirinale, hanno portato ad un forte ridimensionamento del suo ruolo nel governo. Non solo meno ministri, come era ovvio perché la coperta si restringeva, ma soprattutto ministri meno pesanti e meno strategici. Un fatto di solare evidenza, di cui nessuno parla. Giorgetti è l’unico politico affiancato in modo significativo ai ministri di Draghi che scriveranno e gestiranno il Recovery. Poi c’è la prospettiva. Dopo una persona come Draghi, Conte può legittimamente ambire a guidare un partito ma non a guidare un paese a capo di una coalizione. C’è un abisso di profilo tra i due. E quelle offerte politiche – il vecchio centro-destra e il vecchio centro-sinistra – non esistono più“.

L’obiezione la conosce. Draghi comunque non è politico.

“Draghi rappresenta un momento emergenziale, ma la politica è tante cose e non solo i partiti, tantomeno quelli che già abbiamo. Ricordo che persone indiscutibilmente meno “politiche” di lui come Dini e Monti hanno finito con il promuovere partiti. Non dico che avverrà, ma dico solo che ciò è avvenuto in passato anche per meno. Si tratta di logiche interne ai processi reali. In modo più tangibile e nell’immediato c’è che con Draghi in campo siamo ad un reset di tutto il sistema dei partiti attuali. Salvini che lascia per ora su posizioni anti-sistema la Meloni, Conte chiaramente leader dei Cinque Stelle e le dimissioni di Zingaretti sono solo le prime, clamorose, tessere di un puzzle che ogni mese ci porterà novità. Pochissimi nel Pd hanno compreso il cambio di passo e la sfida che abbiamo davanti, a partire da una nuova comunicazione, all’approccio scientifico e informato ai problemi, alla stessa centralità che sono grazie alla sua figura l’Italia, perché per il resto siamo un paese alla deriva, sta ritrovando in Europa e oltre“.

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