Buffon appende le scarpette al chiodo: il ritiro del numero uno dei numeri uno

In fondo a quell’autobus lui dormiva di brutto. Il mezzo sfilava via verso il Tardini che era un giorno di novembre del 1995. Di lì a poco si sarebbe giocata Parma-Milan, che al tempo voleva significare lotta titanica tra club di altissima classifica. Calciatori in fibrillazione. Anche il tecnico Nevio Scala, solitamente glaciale, tradiva un pizzico d’emozione. Ma lui, ripetiamo, dormiva. Lui era, e continua ad essere, Gianluigi Buffon. Uno che oggi, dopo ventotto anni di prodigiosa carriera, ha trovato il momento per chiudere definitivamente la porta al calcio giocato. Roba attesa, perché lo sapevamo tutti che la carta d’identità di Gigi nazionale recita + 45. Ma fa comunque male. Scuote comunque generazioni intere, allevate nel suo mito calcistico, cullate dallo sciabordio confortante delle sue impossibili parate.

Comunque su quel bus che fluttuava sul nastro d’asfalto verso lo stadio mancava all’appello Luca Bucci, il portiere titolare. Brutto infortunio per lui, ma comunque c’era il secondo, Nista. Solo che poi Scala convoca questo portierino appena diciassettenne direttamente dalla primavera. Senza pretese, per avere un cambio. Ma mentre si allenano per preparare la sfida ai rossoneri succede qualcosa. I calciatori del Parma tirano in porta, ma non segnano mai. Fortunata coincidenza, rimugina inizialmente il mister. Però poi si accorge in fretta che non si tratta di un momento. I suoi proprio non riescono a far gol. Trasecolato si volta verso il suo team. “Ma state vedendo anche voi quello che vedo io?”. Quegli altri annuiscono: “Sì, è un fenomeno”.

Gigi poi lo sveglieranno, perché deve giocare quel match contro il Diavolo di Weah e Roby Baggio, e Nista la prenderà malissimo. Ma quel sonno placido prima di un appuntamento così importante era già rivelatore della sicurezza del campione. Buffon scende in campo e para qualsiasi cosa. Quel giorno sorge una nuova stella a Parma, destinata a incidere di stupore inarrestabile il cielo di tutti i tifosi del gioco. Quelli del Parma, certo. Poi quelli della Juve. Ma in fondo, anche quelli della nazionale di ogni epoca in cui ha giocato e, a maggior ragione, della spedizione vincente del 2006. Se oggi premiamo quella coppa in bacheca, diciamolo forte di nuovo, è in larga parte per quella paratissima sulla capocciata di Zidane.

Ma quante ne ha fatte, di prodezze, Gigi. A Parma portava la maglietta di Superman sotto la casacca e poi la sollevava dopo ogni miracolo. Niente di più appriopriato. Troppo luccicante, la sua costellazione calcistica, per non attrarre irrimediabilmente l’appetito delle altre big. Era così approdato a Villar Perosa in una tiepida estate di troppi anni fa, frutto succoso della cessione di Zizou. Alla Juve si era presentato con certi occhiali da sole stile Matrix e il capello lungo sulle spalle. Aveva fatto una papera contro il Chievo, l’unica che si riesca davvero a ricordare in quasi trent’anni di carriera. Poi aveva parato l’impossibile. Era uno di quei portieri che valevano come due gol segnati. Uno di quei rari game changer capaci di rendere semplicissimo quella che per i comuni mortali appariva una missione impossibile. Tasso di errore prossimo allo zero assoluto. Voli irreali. Sicurezza trasmessa per osmosi a reparti che mutavano pelle nel tempo, anche se il suo prediletto resterà sempre la BBC.

Alla Juve, certo, è incappato nella delusione della Champions soltanto lambita, l’ultima volta per colpa di un arbitro con un bidone al posto del cuore. Ma si è tolto una caterva di soddisfazioni. Avrebbe probabilmente meritato il Pallone d’oro, come Lev Jascin, forse più di Lev Yashin. Perché quando riscrivi le regole e inventi qualcosa che prima non c’era, è giusto che ti venga riconosciuto. Dopo quella lunghissima storia d’amore era arrivata l’infatuazione per il PSG: roba strana a pensarla, ma lui avrebbe capito soltanto dopo che quello era il posto perfetto dove concludere la carriera. Troppo tardi. Stavolta era uscito fuori tempo.

Il ritorno alla Juve, quindi la cadetteria con quel romantico ritorno al Parma, e con il rimpianto tra le lacrime di non essere riuscito a salutare riportandolo in serie A. Oggi ha rifiutato l’Arabia, i petroldollari, i sentimenti accantonati per gonfiare ulteriormente la dichiarazione dei redditi. Non è filato sempre tutto liscio, si capisce. La vita propone inevitabili angoli ruvidi. Quell’accenno di depressione, il calcioscommesse, la maglia con il numero 88: tutte crepe di umanità lungo il solco della pelle di un campione quasi alieno.

Oggi Gigi dice basta. Il tempo che scorre alla fine è l’unica parata impossibile. Il mito del portiere più forte della storia però resta per sempre. L’annuncio della rescissione col parlma è atteso a breve e dopo, come già più volte ipotizzato, Gigi potrebbe trovarsi in veste da dirigente, come capo delegazione della Nazionale.

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