Strage Borsellino, l’ex 007 Contrada: la sentenza prova che non ero in via D’Amelio. Mi hanno distrutto la vita

L’ex-007 Bruno Contrada è la dimostrazione vivente di quello che sono arrivati a fare i professionisti dell’Antimafiadepistando, per anni, le indagini su via D’Amelio pur di sostenere, falsamente, che lui era presente quel giorno sulla scena, fino a quando i giudici del Tribunale di Caltanissetta impegnati sul cosiddetto “processo depistaggio” hanno stabilito, inequivocabilmente, che non era vero nulla, che il numero tre del Sisde, già capo della Mobile di Palermo e capo della sezione siciliana della Criminalpol non era lì: “hanno devastato la mia esistenza, hanno fatto di tutto per distruggermi, mettendo in giro la voce della mia presenza sul luogo della strage di via D’Amelio –  ricorda, parlando con l’Adnkronos, Contrada che oggi ha 91 anni ed è, letteralmente, l’ombra di quello che era prima di questo inferno mediatico-giudiziario.- Ora anche una sentenza mette nero su bianco che era tutto falso. Era una manovra di depistaggio delle indagini a mio danno e a danno del servizio di cui facevo parte, con false affermazioni di soggetti istituzionali“.

Nelle motivazioni della sentenza, molto apprezzata dalla famiglia Borsellino perché, per la prima volta, certifica “chiaramente che a questa strage hanno concorso, moralmente e materialmente, soggetti appartenenti a corpi istituzionali dello Stato italiano“, i giudici di Caltanissetta si chiedono perché in un arco temporale prossimo alla strage ci si sia dedicati a diffondere la notizia, poi rivelatasi falsa, della presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio, poco dopo l’esplosione.
A chi faceva comodo una narrazione di questo genere?

Alla luce di tutte le circostanze i giudici ritengono che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage, che si aggiungono a quella mafiosa, di via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza.

“Come ben evidenziato da talune parti civili (in primis l’avvocato Fabio Trizzinolegale della famiglia Borsellino, ndrBruno Contrada era “il diversivo giusto”: un soggetto – nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al dottor Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l’organizzazione mafiosa – da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l’esplosione“, scrivono i magistrati nella sentenza.

Perché volevano addossare a me delle responsabilità? – si chiede oggi Contrada a cui la follia di alcuni magistrati ha rubato 25 anni di vita. – Il perché lo devono spiegare i giudici. Io lo so il perché. O meglio, lo immagino fondatamente. Parlo di dati di fatto“.

E ricorda, Bruno Contrada, un esposto che aveva presentato nel 2007, pochi mesi prima della sentenza definitiva che lo portò nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere per scontare la pena per concorso esterno in associazione mafiosa. Anche se successivamente i giudici della Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo dissero che Bruno Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.

“Nel marzo 2007 avevo presentato un articolato esposto-denuncia querela alla Procura di Caltanissetta di una cinquantina di pagine e c’erano oltre 100 allegati – racconta oggi Contrada – atti giudiziari, con prove per dimostrare che era stata fatta una manovra di depistaggio delle indagini a mio dannoSi voleva danneggiare me e il servizio di cui facevo parte, con false affermazioni di soggetti istituzionali, come un ufficiale dei carabinieri, per avviare indagini a mio carico“.

Si sosteneva che la mia presenza era stata notata e rilevata e addirittura documentata in via D’Amelio, qualche attimo dopo l’esplosione dell’autobomba che massacrò il giudice e cinque agenti dello Stato – dice ancora Bruno Contrada all’Adnkronos – agenti che per me – alto dirigente di polizia – non erano subordinati ma come miei figli“.

E’ stato fatto tutto per sviare le indagini sulla pista sbagliata – racconta ancora Contrada – oltre che gravemente diffamatoria e calunniatoria, infamante e orribile“.

Ma l’esposto finì in un nulla di fatto. “E’ stato tutto archiviato. Io andai personalmente a Caltanissetta per presentare l’esposto al Procuratore della Repubblica di allora, se non ricordo male c’era un facente funzione“.

Secondo i giudici del Tribunale di Caltanissetta “la ricostruzione del passato è stata spesso manipolata al fine di fornire una interpretazione dei fatti che è funzionale alla tutela di interessi non alti, ma altri rispetto alla ricostruzione autentica di tanti eventi cruciali e cupi degli ultimi decenni di storia del nostro Paese“, scrivono nelle motivazioni del processo depistaggio.

La strage di via D’Amelio, tragica nel suo esito umano e deflagrante sul piano politico istituzionale dell’epoca in cui si consumò, ne è esempio paradigmatico e pone un tema fondamentale, quello della verità nascosta, o meglio, non completamente disvelata“.

La sentenza del luglio scorso ha dichiarato prescritta l’accusa di calunnia aggravata dall’aver favorito la mafia contestata a Mario Bo e Fabrizio Matteidue dei tre poliziotti accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, e assolto il terzo imputato, Michele Ribaudo. Il venire meno dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia.

Ieri era stata la famiglia Borsellino, attraverso l’avvocato Fabio Trizzino, genero del giudice ucciso in Via D’Amelio e legale di parte civile nel processo depistaggio  a commentare le motivazioni, depositate solo l’altroieri sera in cancelleria, della “prima sentenza, in 30 anni, che dice chiaramente che a questa strage hanno concorso, moralmente e materialmente, soggetti appartenenti a corpi istituzionali dello Stato italiano“.

Trizzino, sposato con Lucia Borsellino, ha ricordato ieri che i giudici di Caltanissetta “valorizzano la vicenda incredibile connessa al reperto fondamentale della strage, che è la borsa del giudice Borsellino, e la sottrazione immediata dell’agenda rossa” oltreché “l’isolamento” e la “delegittimazione che il giudice subisce per effetto dell’ostracismo del procuratore di allora, Pietro Giammanco”.

Uno dei punti più rilevanti è la “questione delle indagini relative al dossier ‘Mafia e appalti’” un fascicolo che Borsellino “voleva rivitalizzare”. Pur consapevole – e lo disse – poco prima della strage di via d’Amelio e dopo la strage di Capaci, – di lavorare in un “nido di vipere“.

Pubblicato da edizioni24

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