Per la sinistra è sempre colpa del maschio: ora pure il seno è preda del patriarcato

By Andrea Indini

C’è una vecchia battuta triviale che fa più o meno così: i maschi passano il primo anno di vita attaccati a un seno per nutrirsi e il resto della vita a provare ad attaccarvisi per piacere. Ma è appunto una battuta triviale, da bar. E non fa i conti coi giorni nostri: il politicamente corretto, l’ondata femminista di ritorno, le quote arcobaleno imposte dai sacerdoti della religione woke e tutto il resto. E così succede che anche solo prendersi il lusso di scherzare sulle tette (figuriamoci lasciarsi andare a un commento) porterebbe il malcapitato dritto alla sbarra con l’accusa di machismo. D’altra parte oggigiorno è sufficiente uno guardo, anche sprovvisto di consequenziale cat calling (il classico fischio alla bella di passaggio, forma primordiale di violenza sessuale per i benpensanti), per gettare il sopracitato malcapitato nei guai.

Andate a leggervi il saggio di Anja Zimmermann, storica dell’arte specializzata in studi sul genere, uscito in questi giorni in libreria, quali sono i rischi che correte a giocare coi vostri occhi. Titolo dell’opera: Il Seno. In quasi trecento pagine edite da Bollati Boringhieri l’autrice spazia dai dipinti del Quattrocento alle Femen, le amazzoni che per protestare contro il potente di turno gli sbattono le tette in faccia (col solo risultato di provocare l’orticaria ai presenti per l’inutile fuoriprogramma), e poi da Carola Rackete in tribunale senza reggiseno e coi capezzoli ben visibili sotto la maglia (per alcuni forma estrema di emancipazione e ribellione) al décolleté sfoggiato tempo fa dall’allora cancelliera tedesca Angela Merkel all’Opera di Oslo. Ebbene, tette a non finire. Con una tesi di fondo che fa impallidire le femministe del secolo scorso. Eccola enunciata in soldoni: se ci sono dei seni in mostra, ci sono dei predatori e che questi predatori sono – va da sé – tutti i maschi. Etero, ovviamente

La stampa progressista è subito andata in solluchero. Con consequenziali titoli non privi di un divertentissimo (almeno ai nostri occhi) sproloquio tardo sessantottino. Il più buffo è quello del Domani: “Alza quegli occhi, maschio. Il seno è fonte di scompiglio”. La disanima sul corsetto alla corte di Luigi XIV è tra le tante presenti nel libro la più degna di questo slogan tanto assurdo. L’oggetto in questione, viene scritto, è “un mero corpo da esposizione all’interno di quella ambigua e perversa visione del femminile che associa all’adorazione una dichiarata volontà di violenza e di possesso”. I tempi moderni, nonostante il politicamente corretto cerchi di tenere a bada i rozzi istinti del maschio bianco etero, non sono immuni da certe barbarie. Dal momento in cui, si legge sempre sul Domani, “attraversato da uno sguardo maschile preminente e al tempo stesso ambiguo, il seno diviene il luogo di caduta più evidente di una forma di potere e insieme di organizzazione sociale prettamente patriarcale che sul seno rivela tutta la sua inadeguatezza ad accogliere e a comprendere una diversità e al tempo stesso un’uguaglianza di condizioni”.

Il patriarcato, dunque. Poteva essere altrimenti? Ovviamente no. Possono le donne aspettarsi, infatti, istinti diversi da un maschio? Ovviamente no. Perché, se con Robin DiAngelo avevamo appreso della nostra natura intrinsecamente razzista, con Anja Zimmermann scopriamo pure di essere “destinatari privilegiati” di corpi (femminili) che non sono nostri e, per questo, pericolosi predatori.

Il ché ci mette davanti a una domanda: sognano forse, queste femministe, un mondo senza “sguardi maschili preminenti” e, quindi, senza uomini oppure un Califfato dove gli uomini non possono guardare perché le donne stanno al sicuro sotto scafandri neri? In attesa di una risposta, che non avremo mai, ce ne andiamo in giro per la città, sguardo basso, e con una malinconia di sottofondo: quanto era il bello quando uno sguardo non era sinonimo di violenza ma semplice complimento?

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