[Parte Seconda] Sniper, ith24 rivela il nome in codice di “anonimo”. Il libro fu scritto da Simbad

[Esclusiva ith24]

A cura di Pistone

Come anticipato nella prima parte, ith24, assumendosi tutte le responsabilità del caso, rivela il nome in codice di “Anonimo”. Un militare delle Forze Speciali che decise di riportare alcune memorie in un libro chiamato Sniper. L’uomo al Comando si chiama Simbad, di lui si sono perse le tracce. Come già anticipato nella prima parte, alcune indiscrezioni lo vedono in Russia, altri in Repubblica Ceca, ma restano voci di marciapiede.

La seconda parte

​ Momenti di vita

La neve continuava a cadere fitta, un’incessante cortina bianca che univa il cielo. basso e di un grigio uniforme, con il terreno, quasi abbagliante nel suo gelido candore. Avanzavamo faticosamente, affondando fino alle ginocchia nel manto bianco ed infinito. Erano giorni e giorni, ormai, che camminavamo. Il fronte, verso Belgrado, era stato dapprima sfondato e poi spazzato via. I serbi, determinati a liberare la loro terra dagli eserciti invasori, avanzavano inesorabili, spietati ed implacabili nella loro determinazione e nella loro ferocia. Avevamo avuto ordine di ripiegare verso le retrovie, e quindi di approntare una nuova linea di resistenza. Ma mentre noi ripiegavamo in quell’abisso di gelo che era la sterminata pianura, a trenta gradi sotto lo zero, senza indossare gli indumenti adatti per quel clima terribile, senza mezzi di trasporto per la penuria di carburante, senza cibo e praticamente disarmati, anche le nostre retrovie erano state costrette ad attestarsi ancora più indietro, decimate e massacrate, attaccate da più parti e da forze nemiche soverchianti.
E così quelle retrovie, sempre più simili ad un miraggio, noi non le avremmo mai raggiunte, trasformando quella marcia angosciosa in una disfatta senza fine; la nostra ritirata era divenuta prima una sconfitta, poi una fuga disperata.
Era la marcia di un’umanità sconfitta nel corpo e nella mente, vinta dalla storia, aggredita ed umiliata in ogni momento da quell’orribile natura gelida ed aliena, braccata e colpita da quei temibili e feroci nemici che erano i serbi-croati.
Guardavo i miei commilitoni, i miei amici diventati fratelli nella disgrazia, gli uomini che avevano diviso con me quell’esperienza tremenda che era stata la guerra; li vedevo marciare e arrancare accanto a me, davanti e dietro di me.
Poveri fanti dagli occhi spiritati e senza più lacrime, dai visi emaciati e sofferenti, dagli abiti stracciati, dalla mente sconvolta e straziata dall’orrore. In quell’infinita pianura innevata, un esercito sconfitto, una colonna di disperati, si trascinava penosamente, stremato dalla fame, falcidiato dalle armi dei serbi, massacrato dal freddo e dall’angoscia della fine imminente. Usavamo le poche forze rimaste per camminare, per aiutare un commilitone ferito, per chiudere gli occhi a chi non ce l’aveva fatta e si era arreso alla morte, troppo spesso benvenuta in quei giorni d’inferno. Con venticinque-trenta gradi sotto lo zero, il vento che ululava senza tregua, la neve che ti accecava, le scarpe rotte e gli abiti laceri e a brandelli, il liso cappotto troppo leggero per quel gelo, le orecchie congelate ed il muco del naso rappreso e incrostato, era francamente impossibile credere ai miracoli. Sapevi che quella sarebbe stata la fine. Lo capivi ogni minuto che passava.
Le nostre vite erano appese ad un filo sempre più sottile. E allora c’era chi imprecava contro tutto e contro tutti, chi impazziva e non la smetteva più di ridere, chi bestemmiava contro Dio, e chi quel Dio invece lo pregava, gli gridava tutto il suo smarrimento e la sua paura di uomo fragile e distrutto. Non è cosa semplice tradurre in parole lo straziante ricordo di quei giorni. Quando si vedeva un corpo disteso a terra, qualcuno andava a controllare se il disgraziato fosse ancora vivo: se ti trovavi di fronte ad un cadavere, come fossimo sciacalli della peggior specie, lo si spogliava degli stivali, o del cappotto. Se, al contrario, lo sventurato era ancora in vita, lo si lasciava lì: lo avrebbero spogliato quelli che ci cercavano.
Era un incubo senza fine e incredibilmente doloroso da rammentare. Quando, su una bassa e spoglia collina alla nostra sinistra, apparve sferragliando il primo carro armato con la stella rossa. tutti noi fummo quasi contenti di vederlo.
I serbi si stavano preparando a sferrare l’ennesimo attacco, e presto ci avrebbero fatti a pezzi, avrebbero spazzato via senza pietà noi cenciosi, poveri pezzenti, un tempo non lontano fieri soldati, ragazzi spensierati, uomini coraggiosi, ora tutti ridotti a semplici larve consumate. E, con le loro bombe ed i loro proiettili, sarebbe giunta per noi l’agognata morte, la liberazione da quel tormento, la fine di quell’agonia interminabile. Era quasi con sollievo che li vedemmo arrivare.
Ma, nel momento stesso in cui la prima granata esplose con fragore, cento metri davanti a noi e disseminando l’aria di schegge, quando vedemmo i corpi dei nostri commilitoni scaraventati in alto come disarticolate bambole di pezza, per poi ricadere come pupazzi nella neve subito rossa di sangue, quando udimmo le loro urla disperate di dolore e d’agonia, la paura di morire ci assalì in modo incontrollabile, e l’istinto di sopravvivenza prese ancora una volta il sopravvento.
Abbandonando il più rapidamente possibile la strada, ci buttammo a terra, negli alti cumuli di neve. I carri armati, diabolici mostri avvolti da una nera nube di gas di scarico, erano diventati cinque e avanzavano velocemente, in una sorta di osceno balletto, ben consapevoli della nostra assoluta impotenza. Le esplosioni si susseguivano una dietro l’altra, come in un orribile tiro al bersaglio. Accanto a me c’era G., un Lagunare anche lui, come me; poco più dietro, P. un parà della Folgore, pregava a voce alta, piangendo, in ginocchio e con le mani giunte. Gli urlammo di buttarsi giù, di nascondersi nella neve; ma lui, ormai, completamente assorto nel compito di affidare l’anima a Dio, non sentiva nemmeno più le nostre grida disperate. E quando la granata esplose, e una scheggia gli portò via di netto la testa dal collo, stava ancora recitando il Padre Nostro. Inorridito, stordito dalla paura, tra il fragore delle esplosioni e le urla dei feriti e dei moribondi, sentii che il cielo, grigio ed uniforme come piombo fuso, si andava riempiendo del ruggito stridente degli aerei in avvicinamento. In un lampo, un terribile e nitido attimo che mai potrò dimenticare, seppi che era veramente finita. I caccia si abbassarono improvvisamente di quota: erano tre, mi pare di ricordare, e come uccelli rapaci sorvolarono a poche decine di metri d’altezza la strada, spazzandola più volte con le mitragliatrici, e così completando il lavoro iniziato dai carri armati. Ancora sdraiato nella neve, terrorizzato, sapevo di non avere scampo. Eravamo in trappola. Volsi il capo e dissi a G.: ” Dai, scappiamo. Tanto ci ammazzano comunque. Proviamo ad arrivare a quel bosco laggiù ! “ Nessuna risposta mi giunse. Lo guardai, ma lui non si mosse. Lo scossi. Urlai il suo nome. Lo supplicai di rispondermi. Ma era tutto inutile. G. era morto, colpito da un proiettile di mitragliatrice, e la neve, attorno a me, era diventata rossa del suo sangue. Pazzo di rabbia, di dolore, di terrore, incapace di ragionare, mi alzai e mi misi a correre, barcollando, incespicando, cadendo. Tra il sibilo dei proiettili e il fragore delle bombe, come una marionetta senza fili, come un animale in fuga da un incendio, cercai una salvezza che sapevo essere impossibile. Corsi. A perdifiato.

Fino a farmi scoppiare i polmoni, tagliati in due da quella lama affilata che era l’aria gelida che inspiravo. Non so come, non so perchè, sicuramente per un capriccio benevolo del destino, ma riuscii a raggiungere incolume quel bosco di betulle che avevo visto in lontananza: e, appiattito dietro una bassa roccia, sepolto nella neve, le lacrime ghiacciate sul viso screpolato, pregai il buon Dio di salvarmi da tutta quella follia che mi circondava. Rimasi lì, immobile, congelato, come una bestia in trappola, fino a notte inoltrata. Il gelo mi mordeva le carni e i piedi non li sentivo più ormai da ore; ero senza energie, completamente svuotato, un corpo inerte e abbandonato nella neve. Dopo che gli aerei e i carri armati ebbero finito il loro atroce lavoro, alcuni uomini, non so se soldati o partigiani serbi, erano andati di corpo in corpo e, da lontano, li avevo visti controllare se vi fosse qualche sopravvissuto, qualche ferito che non aveva più la forza di invocare neppure la pietà dei suoi carnefici. I secchi colpi d’arma da fuoco che, di tanto in tanto, giungevano alle mie orecchie, erano la testimonianza che quegli uomini avevano trovato un corpo ancora in vita, e che una pallottola sparata in testa a bruciapelo rappresentava l’epitaffio finale per quel povero disgraziato. Non si facevano più prigionieri in quei mesi, non più, nè da una parte nè dall’altra. La guerra si lasciava alle spalle solo agghiaccianti montagne di cadaveri. La notte e il ghiaccio erano la stessa cosa. Il vento fischiava, gli alberi scheletrici oscillavano e scricchiolavano, lugubri presenze di quella terra aliena e sconfinata, ma per il resto ora tutto taceva. In lontananza, poiché ero ancora nascosto in quel piccolo bosco che aveva rappresentato la mia temporanea salvezza, subito dopo che i carri e gli aerei si erano allontanati per andare a portare la morte da qualche altra parte. Ma, alla fine, di certo sarebbero tornati. Ritornare sulla strada, mischiarsi agli altri soldati in ritirata, avrebbe voluto dire ricominciare ad attendere la morte. L’alternativa, però, non era la salvezza, ma il morire da solo, congelato nella pianura desolata. Comunque, sempre meglio che sotto le bombe. Con un enorme sforzo di volontà mi costrinsi ad alzarmi. Il bosco, con i bianchi tronchi delle betulle che mi circondavano, era debolmente rischiarato dalla luce di una pallida luna, apparsa tra uno squarcio improvviso tra le nubi. Non nevicava più, ma il freddo era diventato ancora più insopportabile. Dovevo allontanarmi da quella strada, dovevo fuggire da quel massacro. Non avevo alcuna speranza di riuscire a salvarmi. Desideravo solo morire dignitosamente, acciambellato nella neve candida, non arrossata dal mio stesso sangue. Mi avviai così barcollando ed incespicando, ostacolato nei movimenti dalla neve alta e soffice. D’albero in albero, di cespuglio in cespuglio, in quel mare di bianco ostile, lentamente mi allontanai sempre più dalla strada. Sapevo che il freddo mi avrebbe ucciso presto, che non avrei potuto avanzare per molto; ero debole e sentivo i sintomi del congelamento espandersi dai piedi verso il resto del corpo.

Lampo.
Non scese dal cielo. Sorse dal ponte: una folgore frastagliata da qualche parte dietro i relitti.
Il soldato V. si piegò in avanti, uno stelo di grano reciso da una falce invisibile. Un vortice di sangue arterioso, assurdamente scintillante nel paesaggio a dominanti color piombo, eruttò a mescolarsi con la pioggia opaca. L’inerzia della corsa portò l’uomo ancora in avanti per pochi altri passi distorti. Cadde a faccia in giù sull’asfalto venato di crepe. Le sue gambe ebbero un singolo sussulto terminale.
Le onde sonore dello sparo si dilatarono sul ponte.
Simili a uno strano epitaffio.
La memoria dell’inizio si era dissipata.
Doveva esserci stato un inizio. Doveva essere esistito un luogo, un tempo, in cui una parte si era avventata sull’altra per la prima volta. Ma quel luogo, quel tempo, erano diventati una specie di magma evanescente, inscrutabile.
Qualcuno, al comando, sosteneva che il punto zero non era stato una guerra vera e propria. Non si era trattato di un assalto di frontiera, né di un’invasione, né di un bombardamento. L’ipotesi era un’escalation di cieca crudeltà, di sadica ferocia. Poi erano venute le rappresaglie. Poi le rappresaglie alle rappresaglie. E poi si era effettivamente creata una linea del fronte. No: molte linee di molti fronti simultanei.
Le convenzioni erano saltate. Le regole aveva perduto significato. Prigionieri? Sbagliato: nessuno prendeva più prigionieri, né da una parte né dall’altra. L’escalation era continuata, livello dopo livello, massacro dopo massacro, genocidio dopo genocidio. Ineluttabile, inarrestabile.
Armi portatili.
Armi pesanti.
Armi chimiche.
I fronti si erano progressivamente sgretolati. Adesso tutti i luoghi erano il fronte. E nessun luogo lo era. Così era andata avanti. Senza sosta, senza tregua, senza pietà. Una devastazione dopo l’altra, un cratere dopo l’altro.
Adesso, nella logica della Guerra, era apparso un mutamento. Il contatto col Nemico si era fatto incerto, sussultorio. A combattere parevano essere rimasti sempre di meno. Sia da una parte che dall’altra. Ma nemmeno quel mutamento aveva importanza. C’era un’unica direttiva primaria: distruggere il nemico. Prima che fosse il nemico a distruggere loro. E c’era anche un motivo, ugualmente primario, per continuare a uccidere. Doveva esserci.
Un unico problema: anche di quello si era perduta la memoria.
Tracciante-perforante, elevata penetrazione.
Aveva attraversato il torace del Soldato V. da parte e parte, spezzando ossa, squarciando tessuti viventi.
Peppe finì di trascinare il cadavere dietro la barriera del tank distrutto. Alla cieca, da dietro continuarono a sgranare fuoco di sbarramento. Raffiche furibonde, full- automatic. Ringhiando, sibilando, il piombo ad alta velocità rimbalzò contro le lamiere dei relitti, vaiolate del tempo e dagli elementi.
Il Nemico? Nessuna traccia del Nemico.
Sapevano solo che era sempre là fuori. In attesa, in agguato.
I tre marinai vivi e il soldato morto rimasero appostati sotto la pioggia tossica. Tennero i fucili d’assalto fuori sicura. Li tennero puntati verso il vuoto.
Il Tenente strappò la piastrina da collo del soldato V.. Di colpo, si mise a tossire, come se avesse appena compiuto uno sforzo immane. Un raschiare secco, rantolo di bronchi torturati, di alveoli disseccati. Più volte, Peppe aveva visto bollicine di sangue gorgogliare sulle labbra del tenente.
Niente di nuovo, niente di strano. Se non ti uccideva il Nemico, erano il vento, l’acqua o il cielo a farlo. Era un mondo degenerato, quello della Guerra. Un mondo malefico, venefico. Malattie da radiazioni, tubercolosi mutante, epatite emorragica, peste leucemica.
Dalla logica della Guerra, non esisteva nessun posto in cui scappare.
Non era mai esistito.

  • Non hai ascoltato, tenente.
    Il Tenente serrò nel pugno la piastrina ancora viscida di sangue. Non c’era nessun nome sull’acciaio all’iridium, nessun numero di matricola, solo un codice a barre laser.
  • Non passare il limite, soldato.
  • Hai staccato l’intercom in zona d’operazioni – Peppe spinse gli occhiali protettivi sulla fronte. – Hai compromesso questa intera squadra. E hai fottuto la tua preziosa missione.
  • La missione va avanti!
  • Avanti dove, tenente? Fino alla prossima carcassa? O forse fino alla prossima incrostazione di lichene?
  • Conosci gli ordini, soldato: trovare la Zona Neutra – il Tenente indicò a braccio teso. – Al di là di questo ponte.
  • Non c’è niente al di là di questo ponte. Niente! Solo altri crateri. Lo sai.
  • Quello che io so – puntò il fucile d’assalto contro il torace di Peppe, – è che ora tu andrai a porre fine a quello sniper nemico.
  • Perchè non vai a tu a porre fine, tenente?
    Il dito dell’uomo si contorse sul grilletto: – Ti sto dando un ordine, soldato!
    Peppe rimase impassibile. Era anche quello un modo per uscirne.
    Il Tenente riprese a tossire, il torace scosso da sussulti spasmici, incontrollabili.
    Il terzo di loro sostenne il tenente. Peppe frugò nelle giberne da medic del cadavere del soldato V. e trovò la bombola di ossigeno compresso, avvitò il boccaglio di plexiglas trasparente. Il Tenente si collassò contro il lichene. Continuò a contorcersi, rovesciò gli occhi.
    Peppe riuscì a piazzare il boccaglio. – Respira, tenente.- Aprì la valvola di afflusso. – Forza… Respira!
    Un’emulsione di sangue pallido esplose contro l’interno del plexiglass. La colonna vertebrale del Tenente B. s’inarcò. Quello fu tutto. La pioggia acida continuò a cadere sul bianco dei suoi occhi, lune planetarie sradicate delle loro orbite.
    Avevano dimenticato quale era stato l’inizio.
    Ma non avevano dimenticato che poteva, doveva, esistere una fine. Il tempo degli eserciti stava per concludersi. Tra non molto, la logica della Guerra avrebbe vinto: a combattere non sarebbe rimasto più nessuno. Nemmeno da nessun’altra parte sarebbe rimasto più nessuno.
    Un sogno aveva preso forma. Un sogno, un miraggio e una speranza. L’ultima speranza. In assoluto. Un luogo dove loro e il Nemico avevano imparato a coesistere.
    O forse imparato nuovamente a coesistere.
    Le pattuglie uscivano, certo. Ma non facevano ritorno. Niente rapporti, niente comunicazioni, niente corpi. Forse superavano il ponte e decidevano di restare dall’altra parte. Restavano nel miraggio.
    Nel luogo dove la Guerra aveva avuto fine.
    La Zona Neutra.
    Il vento era aumentato.
    Correnti piene d’umidità velenosa, intrise dell’odore dei metalli corrosi, della terra martoriata.
  • Io continuo – il Soldato M. tolse il caricatore dal fucile d’assalto, verificò i colpi rimasti, tornò a inserirlo. – Io vado alla Zona Neutra.
  • Ma non capisci? – Peppe serrò a pugno la mano guantata. – Non esiste nessuna maledetta Zona Neutra!
  • Tra poco comincia il nuovo anno… – La voce del soldato era atona, svuotata. – Io vado alla Zona Neutra
  • È solo un inganno. Una menzogna priva di senso per farci continuare a uccidere.
    Il soldato uscì allo scoperto, camminò nel vento. – Io vado alla Zona Neutra.
  • No! Non…
    Il proiettile dello sniper nemico centrò il Soldato M. al baricentro corporeo. L’urto del piombo spinse il suo corpo a crollare sui rottami. Un geyser di sangue andò in eruzione dalla sua schiena. Tracciò un Rhorshach scaleno sul metallo contorto del tank.
    Peppe rispose al fuoco dopo meno di due decimi di secondo, collimazione al lampo del fucile dello sniper avversario. Per una qualche assurda ragione, non udì il ruggito della bocca da fuoco. Ciò che udì fu lo schiocco del proiettile che passava a velocità supersonica.
    Nel labirinto di relitti, qualcosa ebbe un sussulto.
    Peppe si riposizionò. Mandò il secondo proiettile a intercettare l’ipotetica curva di caduta del Nemico.
    Sul ponte rimase solamente il vento.
    Peppe scivolò tra le ombre.
    Fucile di precisione di traverso sulla schiena, pistola in pugno, presa bassa a due mani, posizione d’assalto a distanza ravvicinata.
    Contatto col Nemico.
    Contatto terminale col Nemico.
    Peppe continuò a muoversi nella notte incombente. Ignorò il martellare della pioggia. Superò altre svolte nel labirinto devastato del ponte, altri crateri, altro lichene. Raggiunse l’estremo settore nord del ponte.
    Il Nemico non fece niente per fermarla.
    Non avrebbe mai più fatto niente per fermare nessuno.
    Giaceva di traverso in un cratere poco profondo. Due precisi fori d’entrata, parte destra del torace, base della gola. Il sangue si era mescolato all’acqua putrescente che allagava il cratere. Aveva creato un amalgama un violaceo, infetto.
    Peppe sparò un unico colpo, conclusivo. Il proiettile della pistola da combattimento penetrò nell’oculare destro del visore notturno che copriva il volto dello sniper. All’impatto, il cranio si sollevò di un palmo, scrutando per un attimo con l’altro oculare.
    Lo sguardo di Peppe si spostò oltre il ponte. Nessuna luce era visibile nelle pianura battuta dalla tempesta. Nessun chiarore brillava sulla cordigliera senza nome che sbarrava l’orizzonte settentrionale.
    La Zona Neutra?
    Molto più lontano. Molto più in profondità.
    Forse.
    E forse no.
    Peppe mise un ginocchio sul bordo del cratere. Allungò una mano al cadavere. Sollevò il visore notturno. Espose il volto del Nemico. La pioggia tossica riempì la caverna che aveva preso il posto della sua cavità orbitale destra.
    Un ragazzo. Una ragazza. Diciassette anni a stento. Portava la dentiera. C’erano zampe di gallina alle sue tempie. Nient’altro che una bambina. Diventata vecchia dopo aver saltato tutte le terre di mezzo. Caduta nella terra di nessuno.
    Peppe si erse nel diluvio, pistola in pugno. Si passò le dita della mano sinistra sugli zigomi. Cercò rughe sul proprio volto. Attraverso il cuoio del guanto, non poté sentirle. Ma sapeva che erano là. Era anche lui un vecchio, da molto tempo. Metamorfosi avvenuta su campi di battaglia senza senso, combattendo una guerra sconosciuta, nel nome di un credo dimenticato.
    La Zona Neutra continuava a essere un miraggio. Forse lo era sempre stato, un anno di Guerra dopo l’altro. Qualcosa di diverso dalla fine assoluta. Qualcosa in cui volere credere.
    Il Nemico era reale.
    Il Nemico più primevo, più ancestrale.
    Alla fine, tutta la fragile struttura, tutto l’instabile equilibrio dei millenni, si erano disgregati.
    Uomo. Contro donna.
    Donna. Contro uomo.
    La prima e l’ultima di tutte le Guerre.
    Peppe lasciò che la pioggia velenosa scivolasse lungo il suo volto scavato. Lasciò scorresse fino al ventre delle tenebre.

​ LA FINE

Era rimasto solo e lo sapeva. Lo vedevo tra la neve, affondato, il viso che era bianco come tutto quello che lo circondava, immobile.
Potevo colpirlo, sapevo che non si sarebbe mosso, aveva capito che era la fine. Ma non mi decidevo a sparare.
Lui muove piano il capo, un mezzo giro a sinistra; non sta guardando niente, sta solo cercando di capire cosa faccio io. Lo tengo sotto mira ma non mi muovo. Adesso muove una mano, la sinistra, la sta alzando lentamente, a palma aperta, il guanto di lana bianco sporco quasi si confonde con il paesaggio. Seguo il suo movimento, senza reagire.
Il silenzio che ci circonda è irreale, è come se fossimo due figure di nebbia, due ombre inconsistenti. Lui sa che è inutile spararmi, eviterei il suo colpo; e sa che, se voglio, lo faccio secco in un secondo. Adesso si sta alzando, le braccia allargate ma senza mollare l’arma. Non è una resa, un cecchino non si arrende mai, è un saggiare la situazione, un cercare una via d’uscita.
Lo lascio alzarsi in piedi, senza muovermi. Non sento neppure il freddo pungente, teso come sono a seguire i suoi movimenti, a guardare le sue mosse.
Siamo soli io e lui e sappiamo tutti e due che questa stupida guerra è finita, che non dobbiamo per forza ammazzarci, ma abbiamo i nostri ordini, non possiamo tirarci indietro. Lui fa un passo indietro, talmente lento che sembra non si sia nemmeno mosso. Lo guardo pigro. Lo tengo sempre sotto tiro, lui lo sa. Se voglio, posso sparare e colpirlo dritto in mezzo agli occhi, un colpo solo.
Altro passo indietro, adesso il movimento è stato rapido, come nervoso. Sta cedendo, è spiazzato dalla mia immobilità, non sa cosa aspettarsi. So cosa sta pensando, so tutto di lui, dopo giorni che ce ne stiamo qui faccia a faccia in mezzo a questa neve, cercando di ammazzarci a vicenda. A me è arrivata quattro ore fa la notizia che le ostilità sono cessate, la guerra è finita. Anche lui deve averlo saputo, anche se non ho notato movimenti. Ma adesso siamo io e lui e niente guerra. Dipende da cosa vuol fare lui, la conclusione adesso.
Un altro passo indietro, è quasi al limitare del bosco, un altro passo e potrà voltarsi e correre, anche se sa che sarebbe ancora sotto tiro, almeno per un altro centinaio di metri.
Lì si ferma e abbassa le braccia. Ci guardiamo. Io disteso e mimetizzato nella neve, lui in piedi contro il bosco, un fantasma grigio e bianco, irreale.
Scosto il viso dalla mira, così capisce che non ho intenzione di sparare. Mi sembra che faccia una specie di cenno col capo, ma potrei sbagliarmi e poi si gira e sparisce in mezzo ai cespugli bassi, chinato in due, sparendo in pochi secondi.
Chissà dove crede di andare. Gli spareranno prima che torni a casa. O che torni al suo comando. La fine di un conflitto è il momento peggiore per andarsene in giro da soli, vengono fuori tutte le faide, tutte le vendette e lui è da solo, nessuno lo difenderà, chi vuole difendere un cecchino, un assassino prezzolato.
Aspetto ancora una decina di minuti prima di alzarmi in piedi, anche se so che lui è già lontano ma la prudenza non è mai troppa, sarebbe il colmo farmi sparare proprio adesso che gli ho salvato la vita. Quando me ne torno al comando mi chiedono se è tutto tranquillo, se ho stanato l’ultimo cecchino nemico. Dico di sì, tutto a posto.
“Lo hai fatto secco?
“No, era già andato via.
“E dove vuoi che vada….da solo, poi.
Non possono capire. Un cecchino non è mai solo, non sarà mai solo. Assieme a lui ci saranno sempre i ricordi di tutti quelli che ha fatto fuori, freddamente, diligentemente, con precisione e competenza. Un cecchino non è mai solo.

Pubblicato da edizioni24

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