By Carlo Nicolato
Dalla Sassonia al Brandeburgo passando perla Turingia, in nessuno di questi Land i Verdi tedeschi sono riusciti a superare il quorum e a mandare nei parlamenti locali uno straccio di rappresentante. Una disfatta che, dati alla mano, non ha eguali nell’ultimo decennio e la cosa è ancor più grave se si considera che proprio tale lasso di tempo è stato caratterizzato dal costante apocalittico allarme sul clima e dalla relativa rivoluzione green di cui ovviamente i Grünen sono i principali responsabili ideologici.
Doveva essere il loro momento e invece sembra sia stata la loro fine. Ai vertici del partito non è restato che tirare le somme rimettendo il mandato in vista del congresso di novembre. «Vogliamo che questo partito s’impegni per il futuro, e ci assumiamo la responsabilità promettendo un nuovo inizio. Siamo molto orgogliosi di quello che abbiamo fatto, abbiamo guidato il partito in tempi difficili», ha detto la dimissionaria numero uno, la co-leader Ricarda Lang. «Serve un nuovo inizio. È tempo dimettere il destino di questo meraviglioso partito in nuove mani», ha aggiunto il dimissionario numero due, il co-leader Omid Nouripour.
Quest’ultimo ha aggiunto che «in gioco non c’è solo il destino del partito, quanto piuttosto la possibilità anche in futuro di fare una politica per la pace, la libertà, la giustizia, il benessere e la protezione del clima. Serve un cambiamento». In gioco tuttavia c’è anche il destino della “coalizione semaforo” che governa la Germania e che sta attraversando una crisi di cui i Verdi rappresentano una delle parti ideologicamente più esposte. Le politiche green che la Ue ha varato e che il governo tedesco ha appoggiato con entusiasmo sono infatti tra le responsabili, ma non certo le sole, delle gravi incertezze economiche che il Paese sta vivendo.
Nell’ultimo bollettino periodico dell’Ifo, l’indice aziendale tedesco, si dice chiaro e tondo che «la crisi è innanzitutto una crisi strutturale», e che al primo posto tra le cause ci sono proprio la decarbonizzazione e lo shock dei prezzi dell’energia che ne è conseguito. E che in Germania è stato moltiplicato dall’ecoricatto dei verdi che hanno insistito per la prevista chiusura delle centrali nucleari proprio mentre infuriava la crisi del gas per via della guerra in Ucraina.
Segue poi, secondo l’analisi dell’Ifi, la digitalizzazione, il coronavirus, il cambiamento di ruolo della Cina nell’economia globale e il «cambiamento demografico», un modo tecnicamente ruffiano per dire che tra le cause della crisi strutturale tedesca c’è anche l’immigrazione, problema che Verdi e socialdemocratici non hanno mai voluto affrontare se non dopo gli ultimi attentati islamici.
Va poi aggiunto che nei Land suddetti, tutti siti nell’est della Germania e in qualche modo ancora legati alla Russia, i Grünen sono stati puniti anche perla loro posizione antiputiniana e fermamente a favore degli aiuti militari all’Ucraina. La débâcle dei Verdi dunque è molto di più di una crisi di partito che un cambio di vertici potrà risolvere, è una crisi di idee, la bocciatura di una visione, l’insofferenza dei cittadini tedeschi per gli ecodiktat e l’ipocrisia pacifista.
Il Cancelliere Olaf Scholz dice che la crisi dei Grünen non avrà alcun impatto sulla coalizione, ma è difficile crederlo. La Cdu chiede la testa dei due ministri verdi al governo, quello dell’Economia Robert Habeck e quello degli Esteri Annalena Baerbock: «Quando la leader del partito Ricarda Lang parla della necessità di un nuovo inizio e di volti nuovi, i rappresentanti Baerbock e Habeck, diventati simboli della politica economica e migratoria fallita, difficilmente possono rimanere in carica». Mentre Markus Söder della Csu va oltre e chiede le dimissioni di tutto il governo: «Il semaforo sta crollando, nuove elezioni sono necessarie. Punto e basta».