David Zebuloni
Dieci mesi sono trascorsi da quel maledetto 7 ottobre che ha stravolto gli equilibri in Medio Oriente e trascinato lo Stato d’Israele in una guerra forzata e non voluta contro i più agguerriti gruppi terroristici della regione. Dieci mesi di precarietà. Quel senso di precarietà che solo la guerra può infondere in chi la vive. Poche, pochissime certezze hanno tenuto gli israeliani con la testa fuori dall’acqua in questo periodo di apnea: Israele e Hamas non possono più coesistere uno di fianco all’altro, la guerra non può terminare finché l’ultimo degli ostaggi non sarà tornato e casa e, una volta finita la guerra, anche Netanyahu deve andarsene a casa.
Colui che per anni aveva assicurato agli israeliani di essere l’unico a poter garantire loro dei sonni tranquilli e sereni, era responsabile della più grande strage del popolo ebraico dalla Shoah ad oggi. Il rigetto degli israeliani nei confronti del loro leader, dunque, non era più una questione politica. Di destra odi sinistra. Tutti, o quasi tutti, erano convinti che l’ormai ex King Bibi non fosse più idoneo a governare. Così, il premier dalle nove vite politiche è crollato nei sondaggi. Un crollo rapido e apparentemente definitivo. Netanyahu era politicamente finito, pronto ormai alla pensione forzata. Nulla, appartenente, poteva risollevarne le sorti.
Gli serviva un miracolo, e il miracolo è arrivato: in un breve periodo, tutti gli astri si sono allineati a suo favore. Noa Argamani, ragazza ostaggio simbolo delle atrocità di Hamas, è stata liberata in un’audace e rischiosa operazione militare a Gaza. Benny Gantz, che fino ad allora guardava tutti i suoi rivali politici dall’alto dei sondaggi, ha avuto uno screzio con lo stesso premier e ha deciso di uscire dal gabinetto di guerra in momento particolarmente delicato del conflitto, rinunciando di conseguenza al consenso degli elettori che vedevano in lui una figura solida e rassicurante.
Ismail Haniyeh, Mohammad Deif e Fouad Shukur, i massimi vertici di Hamas e di Hezbollah a Gaza, in Libano e in Iran, sono stati eliminati uno dopo l’altro nel giro di due settimane. Dulcis in fundo: la visita negli Usa, gli abbracci con Biden e con Trump, il discorso tenuto al congresso americano accompagnato da quattordici minuti di standing ovation. Così Netanyahu è riuscito a ricostruire la propria immagine, riaffermandosi come leader forte e costante, che gode di un certo prestigio internazionale, capace di eliminare i suoi nemici terroristi ovunque essi siano. Oggi nei sondaggi prevale di nuovo su Gantz, su Lapid, su Lieberman e su Saar, ma come ben sappiamo, non è tutto oro ciò che luccica.
Nonostante il momentum favorevole, Netanyahu senza la sua coalizione non può governare e, per quanto egli si sia rialzato dopo il crollo clamoroso, i suoi alleati politici ancora non godono della stessa fiducia. E arrancano. Se Israele dovesse andare alle urne prima del previsto, probabilmente non vincerebbe nessuno. E bisognerebbe tornare da Bibi.