Napoli: al “Cardarelli” cartella clinica col “buco”: quando il perito del Tribunale è un amico, tutto può succedere…

Non possiamo ancora imputarla a malasanità perché manca una sentenza che lo certifichi. Eppure, la triste storia della signora L.L., morta a 52 anni nel reparto rianimazione dell’ospedale Cardarelli di Napoli, ha tutte le premesse per diventarne uno dei casi più eclatanti. Ma procediamo con ordine: la signora arriva al nosocomio partenopeo nell’ottobre del 2014 per sottoporsi ad una colonscopia virtuale. Gliel’hanno prescritta all’Humanitas di Milano, dove era stata ricoverata mesi addietro nella speranza di individuare la causa della polineuropatiasensitiva assonale che l’affliggeva. Una patologia che le aveva fatto perdere l’uso di braccia e gambe, in seguito parzialmente recuperato grazie a massicce dosi di cortisone. Al Cardarelli, infatti, arriva su una carrozzella spinta dal marito.

Dall’esame il referto rileva la presenza di ben quattro lesioni. Chi lo ha effettuato non ha dubbi: sono tumori. La diagnosi è tra le più infauste: K, cioè carcinoma. Ben quattro, ma con gli altri organi intorno tutti indenni. Circostanza, quest’ultima, che forse avrebbe dovuto consigliare maggiore prudenza nel diagnosticare un cancro. Tanto più che nella letteratura scientifica i cosiddetti tumori sincroni quasi mai superano la coppia. Ma tant’è. L’esito lo comunicano telefonicamente tre giorni dopo al marito, che lo rigira alla moglie sotto forma di pietosa bugia: diverticoli, affezione con cui L.L. ha familiarità (ne avevano sofferto il padre e alcuni zii). In ogni caso bisognerà passare per la sala operatoria. L’intervento viene effettuato alcuni giorni dopo: asportazione totale del colon e anastomosi per collegare al retto l’ultimo tratto dell’intestino.

Una tecnica – spiega l’equipechirurgica – che solleverà la signora dal fastidio di vivere per alcuni mesi con una bustina per la raccolta delle feci appiccicata sul fianco sinistro. Ma la vera sorpresa arriva dall’esame istologico dell’organo asportato: il temuto “poker di K.” non c’è più. Nell’intestino della signora non si annidavano i quattro tumori ma proprio i diverticoli di famiglia. Si festeggia allo scampato pericolo, L.L. sosta una sola notte in terapia intensiva e poi passa in reparto. Ma proprio qui cominciano i problemi: l’anastomosi fatica a cicatrizzarsi. Una conseguenza prevedibilissima alla luce del cortisone assunto in precedenza che ha depresso le difese immunitarie della paziente. Ciò nonostante, tempo una settimana e la rispediscono a casa.

Qui, però, resiste solo sei giorni, al termine dei quali è costretta a tornare d’urgenza al Cardarelli. Vomita in continuazione. Arrivata all’ospedale, la sottopongono a rettoscopia. A questo punto, la vicenda si tinge di giallo: la cartella clinica, infatti, testualmente recita “si predispone rettoscopia”, ma poi non ne riferisce l’esito né specifica se l’esame sia stato revocato e quindi non più effettuato. In compenso, c’è un buco di tre ore. Ed è proprio in quel lasso di tempo che si decide il destino della paziente. L.L. riemerge infatti dalla rettoscopia praticamente tramortita. I suoi familiari si accorgono che le sue estremità sono livide, quasi annerite, mentre il suo collo è rigido: è l’inizio della sepsi che da lì a breve – l’11 dicembre – ne causerà la morte. Risulterà quindi del tutto inutile l’intervento chirurgico d’urgenza effettuato la sera stessa della rettoscopia.

Per i parenti di L.L., le responsabilità del Cardarelli sono plurime ed evidenti: la diagnosi avventurosa (per altro asseverata solo a mezzo di colon TC), l’intervento chirurgico effettuato a prescindere dall’anamnesi della paziente e, infine, la rettoscopia disposta, mai revocata e priva di riscontro in cartella clinica. È fondato il sospetto che proprio effettuando quell’esame si sia rotta l’anastomosi con conseguente travaso di feci nell’intestino, che poi causa la sepsi. Ospedale, funerale, tribunale. Un’odissea tuttora in corso, nonostante gli otto anni trascorsi. Ma la giustizia civile, si sa, procede a passo di lumaca. Soprattutto se, come in questo caso, cambiano i giudici: tra togati e Got, se ne contano già cinque. E mai uno che abbia rispettato e dato corso alle decisioni del precedente.

Il primo giudice, ad esempio, aveva ammesso la prova testimoniale richiesta dai familiari della paziente mentre l’ultimo se n’è altamente fregato. Probabilmente perché nel frattempo arriva la perizia del Ctu, il tecnico incaricato dal tribunale. Per un’amara beffa del destino ha le stesse iniziali – L.L.- della paziente scomparsa. La sua relazione è un inno all’operato del Cardarelli (l’Azienda ospedalieraaveva ritenuto di non difendersi attraverso una propria perizia) e una mazzata in testa ai familiari della defunta. «Com’è potuto accadere?», si chiedono. Una spiegazione, i congiunti, ritengono di averla trovata in un documento scoperto per caso su internet dal loro legale: è il curriculum di L.L..Vi si legge che in passato aveva avuto rapporti professionali con il Cardarelli, da lui non dichiaratial momento dell’accettazione dell’incarico. Un’omissione grave, che getta un’ombra pesantissima sulla sua imparzialità.

L’avvocato chiede al giudice pro-tempore di convocare il perito affinché spieghi. Richiesta accolta, ma L.L., invece di presentarsi, si materializza in udienza sotto forma di memoria di mezza pagina in cui rivendica la propria professionalità. L’avvocato insiste, ma cambia ancora il giudice e non se ne fa più niente. Il processo si avvia alla fine. I familiari tentano un’ultima virata in sede penale. Tutto inutile: archiviazione, per la soddisfazione del perito L.L. e per la delusione dei parenti della signora L.L. Ai quali non resta che attendere ora il 14 marzo, giorno dell’udienza conclusiva. Per la cronaca, il giudice è cambiato ancora. I familiari sperano sia della stessa tempra del suo collega di Berlino, quello – per intenderci – che diede ragione al mugnaio di Postdam e torto all’imperatore di Prussia.

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