
By Mario Sechi
L’unica destra che governa una grande nazione europea è in Italia. Il crollo dei Tories in Inghilterra e la sconfitta del Rassemblement National in Francia fanno del caso italiano un «unicum» sul piano della formula e della leadership. Roma oggi è un fattore di stabilità in Europa e nel G7. Facciamo un giro d’orizzonte. Per sapere, per capire, per uscire dalla demagogia della nostra sinistra strapaesana. Tre tappe, una conferma del buon momento politico che vive l’Italia.
In Francia: il caotico disegno di «barrage» di Emmanuel Macron per fermare la destra, l’assalto fallito di Marine Le Pen, la vittoria del radicalismo della sinistra del Fronte popolare che propone un insieme di riforme economiche da centro sociale, sono fonte di instabilità. Un programma economico talmente folle che non ci credono neppure i mercati, ma forse in Borsa non si agitano troppo (per ora) perché in ogni trader di Wall Street si nasconde un marxista da salotto. A Parigi sono passati dalla presa della Bastiglia a quella della pastiglia (per l’emicrania), per fermare Le Pen vale tutto, anche l’antisemitismo di sinistra. Non c’è una maggioranza, Macron ha lasciato il premier Gabriel Attal al suo posto, Mélenchon e i suoi fedelissimi fanno liste di proscrizione di riformisti, i sindacati sono sul piede di guerra.
In Inghilterra: la débacle storica dei Conservatori dopo una guerra fratricida per entrare (e uscire) da Downing Street, l’ascesa di Nigel Farage come elemento che «fa perdere» i Tories, l’affermazione del Labour di Keir Starmer con un programma progressista dove già si vedono le potenziali crepe e le crisi imminenti, come ha sottolineato Tony Blair con un intervento sul Times a proposito delle idee dei laburisti sull’immigrazione. Gli inglesi hanno cambiato rotta decisamente, c’è una maggioranza solida che aspira a costruire uno scenario di stabilità, ma le utopie dei Laburisti presto si scontreranno con la realtà.
In America: il presidente Joe Biden ha scritto una lettera ai parlamentari del Partito democratico per dire che continuerà la corsa alla Casa Bianca. L’elezione presidenziale oscilla tra commedia e tragedia, quello che a Biden fu possibile nel 2020 grazie alla crisi della pandemia (una campagna elettorale fatta «dallo scantinato di casa», senza comizi, telecomandata e con il voto postale) quattro anni dopo è una chimera. Ogni uscita del presidente è un momento di panico, lo staff è costretto a produrre una serie di cartelli per «guidare» Biden negli eventi pubblici verso il palco. E oggi si apre a Washington il vertice della Nato che segna i 75 anni dell’Alleanza Atlantica, proprio nel momento in cui una pioggia di missili russi si è abbattuta sull’Ucraina (36 morti e 140 feriti) colpendo anche un ospedale pediatrico a Kiev. C’è davvero un «Commander in Chief» alla Casa Bianca?
Il caso francese è esemplare per leggere la grande tenuta del quadro italiano. Gli errori del Rassemblement National sono squadernati: Jordan Bardella ha fallito, Marine Le Pen ha provato a dare agli elettori la figura di un giovane, mossa a cui Macron ha risposto affidando il governo a Gabriel Attal. Finire in testa al primo turno e poi scivolare al terzo posto al giro di boa del voto significa non solo non aver fatto bene i propri calcoli ma esser finiti fuoristrada nella strategia politica.
Bardella puntava all’incarico e l’ha mancato. Le Pen vuole l’Eliseo, ma con questa ripetizione dell’errore non lo avrà mai, si pone un problema anche per lei. I gollisti non hanno votato per il Rassemblement National e senza il loro appoggio non poteva esserci maggioranza.
COLLABORAZIONE
Non è una questione di durezza, semmai di rotondità del leader, al netto della decisiva questione antifascista che in Francia ha un peso storico diverso rispetto all’Italia. L’elemento che è mancato alla destra francese è la capacità di tessere alleanze, solo all’ultimo momento Marine Le Pen ha affermato che avrebbe cercato la collaborazione con altri partiti. Così il Rassemblement National ha conquistato oltre 10 milioni di voti ma senza allargare i suoi confini.
In Italia si suona uno spartito diverso: il centrodestra è costituito da tre soggetti che si presentano insieme alle elezioni sulla base di un programma sottoscritto dai segretari, con pesi distribuiti alla vigilia del voto valutando la forza parlamentare e la media dei sondaggi; il leader della coalizione è quello che prende più voti e ha diritto alla premiership.
Dal 2022 questa coalizione è guidata da Giorgia Meloni, prima donna presidente del Consiglio. I tre partiti coprono una spazio esteso tra la destra e il centro della mappa politica: Fratelli d’Italia, il primo partito del Paese, è una forza della destra Europea che guida il gruppo dei Conservatori europei (Ecr); Forza Italia è un soggetto fusionista che fa parte della famiglia dei Popolari europei; la Lega è un movimento autonomista che fa parte di un nuovo gruppo sovranista a Bruxelles, i Patrioti per l’Europa.
SOCIETÀ MULTIFORME
La mappa interna di questa alleanza oggi è così distribuita: lo spazio centrale è occupato da Fratelli d’italia, la Lega è a destra, Forza Italia è l’ala liberale. Quello che Silvio Berlusconi definiva «l’attacco a tre punte» ha confermato la sua efficacia nel voto europeo, ma in questi anni è cambiato, Giorgia Meloni è «al centro» di questo sistema per funzione e dimensione: avendo il primato nel voto ha sostituito il Cavaliere nel ruolo di «federatore» della coalizione e con un partito che sfiora il 30% dei consensi deve costruire un’offerta politica che soddisfa un elettorato che non è un monolite, va oltre i confini di una destra che è multiforme, come la società italiana.
La sconfitta di Marine Le Pen, l’indebolimento di Emmanuel Macron, i sogni di Keir Starmer in un’Inghilterra che ha fatto la Brexit restando una «Little Britain», danno al centrodestra italiano un’occasione per rafforzarsi e differenziarsi, mantenere lo spirito nazionale e farlo valere sulla scena internazionale. Ci sono partite che si possono giocare solo con la massa d’urto dell’Unione europea, ma dentro questo scenario ci sono spazi di manovra per chi ha fantasia e piedi per terra. Questo governo ha chiuso bene dossier aperti da decenni, Alitalia e Telecom sono state inserite in un contesto internazionale, ma sulla sfida vitale dell’auto e della mobilità siamo indietro (esiste un problema di «blocco» costituito dalle fabbriche di Stellantis), dobbiamo trovare una politica coerente per il boom del turismo, va costruito un piano per la demografia e l’immigrazione che, come vedete dal titolo nella prima pagina di Libero, richiede costante attenzione.
Meloni può cogliere la palla al balzo per giocare a «bridge building», fare da ponte tra i vari gruppi in un Parlamento europeo dagli equilibri tutt’altro che definiti. La singolarità del caso italiano dà al premier una serie di carte da giocare che vanno oltre la partita della Commissione europea. Non si tratta certo di «democristianizzare» l’azione politica di Meloni (Giorgia resta Giorgia, è la sua forza), ma di aggiornare il programma del governo a Roma per adattarlo a quello che sta accadendo a Bruxelles, a Parigi, a Berlino, a Washington, a Pechino e a Mosca.
Il voto per la Casa Bianca sarà l’altro spartiacque e gli Stati Uniti – con o senza Trump – nei prossimi anni saranno un partner difficile e non si tratta solo di una questione di eserciti, siamo in competizione su tutto. Sì, viviamo tempi interessanti. Forse troppo.