L’uccisione di Al-Zawahiri non frena Al Qaeda. Ci saranno ripercussioni dimostrative?

Domenica 31 luglio, alle 6:48 ora dell’Afghanistan, una coppia di missili Agm -14 Hellfire R9X soprannominati “blade bomb” o anche “ninja bomb”, lanciati da un drone che si ritiene essere un Mq-9 Reaper, hanno ucciso Ayman al-Zawahiri, leader formale di al-Qaeda, mentre stava per uscire sul balcone di un appartamento nel quartiere di Shirpur a Kabul, dove viveva con i membri della sua famiglia.

Sulla sua testa pendeva una taglia di 25 milioni di dollari, in quanto il medico di origine egiziana era ritenuto essere l’ideologo del gruppo terroristico e legato, in qualche modo, agli attentati dell’11 settembre a New York e prima ancora a quelli alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania del 1998.

Al-Zawahiri è stato il numero due di al-Qaeda fintanto che Osama Bin Laden era in vita, e quando 11 anni fa questi è stato eliminato nella sua residenza fortificata di Abbottabad, in Pakistan, è diventato uno dei terroristi più ricercati al mondo. Dall’11 settembre sono passati quasi 21 anni, e la fine del medico era inevitabile sia perché era più o meno legato a quel tragico evento, sia perché rappresentava una personalità simbolo per al-Qaeda, capace di raccogliere intorno a sé e unirne i militanti, spesso divisi in fazioni molto diverse tra loro e in concorrenza – anche aspra e aperta – con l’Is (Islamic State), che ha avuto più attrattiva per essere stato capace di costruire uno Stato secondo i precetti di un islam integralista, al contrario del noto gruppo terrorista.

Nonostante questo definire al-Zawahiri come colui che ha ideato gli attacchi dell’11 settembre è errato: chi li ha pianificati, insieme a Bin Laden, è Khalid Sheikh Mohammed, attualmente incarcerato a Guantanamo e in attesa di un processo da parte di un tribunale militare che continua a subire ritardi per tutta una seria di motivazioni che vanno dalla logistica del campo di detenzione, difficile da raggiungere, al fatto che il sistema delle commissioni militari istituito per il processo è stato creato da zero dall’amministrazione Obama, quindi ogni regola può essere un punto di contesa giudiziaria e far fallire il processo stesso, senza considerare la segretezza che permea Guantanamo e tutto quello che avviene all’interno di un penitenziario militare che definire atipico è un eufemismo.

Sappiamo che al-Zawahiri, nell’organizzazione di al-Qaeda, ha avuto il ruolo di ideologo e non di terrorista operativo, dimostrandosi anche fallimentare sotto quest’ultimo punto di vista in quanto il suo jihad in Egitto negli anni ’90, prima che si unisse ad al-Qaeda, non ha raggiunto l’obiettivo di rovesciare il presidente Hosni Mubarak, qualcosa che è avvenuto successivamente durante la stagione delle “primavere arabe” con rivolte di piazza sobillate dalla Fratellanza Musulmana.

Al-Zawahiri aveva 71 anni, ed è difficile credere che avesse ancora un ruolo attivo e di primo piano in al-Qaeda da quando è stato indicato come il numero uno dell’organizzazione. A sollevare questo sospetto ci sono gli stessi documenti ritrovati nel raid di Abbottabad che hanno mostrato che durante i suoi ultimi anni di latitanza, Bin Laden non era più un leader operativo. Il suo ruolo, allora, era quello di comunicare coi militanti e tenerli coesi nella lotta all’Occidente. Del resto sappiamo che Osama è stato attivo fintanto che è riuscito a restare “sul campo” in Afghanistan ovvero prima dell’intervento militare statunitense: già quando è stato costretto a darsi alla macchia, durante il periodo di Tora Bora. il suo ruolo si era fortemente ridimensionato. Il suo rifugio in Pakistan assumeva quindi più il sapore di un esilio dorato, lontano dal vertice operativo di al-Qaeda, e soprattutto sotto la protezione di Islamabad, che lo considerava ancora cinicamente utile per controllare i parossismi dei talebani.

Talebani che hanno dato rifugio a Bin Laden a metà degli anni 90 e pur incassando la benedizione dello stesso al-Zawahiri, hanno sempre considerato scomoda la presenza del leader di al-Qaeda (e di al-Qaeda stessa) sul proprio territorio, attenendosi strettamente, però, ai dettami dell’ospitalità islamica, ritenuta sacra. Un’ospitalità che si è riproposta proprio nei confronti del medico egiziano, che nel suo appartamento a Kabul viveva in un esilio paragonabile a quello di Bin Laden ad Abbottabad.

Le vere domande da porsi non sono relative alle modalità di supporto dei talebani verso al-Zawahiri – attraverso la fazione di Haqqani –, ma dove si trovasse prima della caduta di Kabul dell’agosto scorso (quindi chi lo proteggesse e perché la Coalizione non è riuscita a trovarlo) e chi sia il vero leader operativo di al-Qaeda, stante la considerazione che se gli Stati Uniti hanno potuto eliminarlo nel suo appartamento nella capitale di quello che è il nuovo Emirato Islamico Afghano, significa che la sua figura era diventata del tutto ininfluente, o quantomeno marginale, per le dinamiche dell’integralismo islamico.

Probabilmente il velo che ricoprirà la sua figura, ora che è stato eliminato, non permetterà di rispondere alla prima domanda ma apre comunque una riflessione sulla necessità della presenza in Afghanistan delle truppe della Coalizione, il cui scopo era anche quello di eliminare la presenza terrorista. Sappiamo che i santuari di al-Qaeda, così come quelli talebani almeno sino al passaggio di responsabilità delle operazioni alle forze di sicurezza afghane e quindi sino al disimpegno occidentale, erano al di fuori dell’Afghanistan, principalmente in Pakistan, quindi al di fuori del raggio d’azione della Coalizione.

A tenere le redini di al-Qaeda, però, non era al-Zawahiri, ma probabilmente un personaggio che è emerso con la morte di Hamza bin Ladin e di Abu Muhammad al-Masri. Stiamo parlando di un altro egiziano che va sotto il nome di battaglia di Saif al-Adl. Saif è una personalità di spicco all’interno di al-Qaeda, con una profonda esperienza come leader delle milizie, dell’intelligence e della sicurezza e come pianificatore del terrorismo. Quando morì nel 2011, Osama bin Laden aveva già identificato il suo successore che avrebbe dovuto essere al-Zawahiri che però non raccolse la fiducia di tutti i militanti: l’organizzazione aveva bisogno di qualcuno le cui credenziali e la cui lealtà fossero irreprensibili. Pertanto ci si rivolse a un uomo che era stato in prima linea fin dall’inizio, e che era stato una figura di spicco per tanto tempo, ovvero Saif al-Adl. Dal 2002 o 2003 Saif si era stabilito in Iran dove è stato arrestato e detenuto – tra carcere e arresti domiciliari – sino alla fine del 2010, quando gli era stato permesso di tornare in Waziristan, nel nord del Pakistan, dove al-Qaeda aveva allora il suo santuario.

Nel maggio 2011, quindi, Saif godeva di sufficiente libertà per agire come leader ad interim di al-Qaida, organizzazione a cui aveva dato gli ultimi 22 anni della sua vita. La presunta recente malattia di al-Zawahiri, che si pensa potrebbe aver marginalizzato definitivamente il medico egiziano, insieme all’eliminazione di al-Masri ad agosto del 2020, potrebbero aver fatto assurgere Saif a leader dell’organizzazione terroristica.

Quanto accaduto domenica scorsa a Kabul, quindi, non rende il mondo “più sicuro” rispetto alla minaccia terroristica ma si configura come una punizione di Washington per l’11 settembre, così come lo è stata l’eliminazione di Bin Laden nel 2011; inoltre sottolinea come i talebani, in realtà, mal sopportino la presenza di al-Qaeda sul proprio territorio in questo momento in quanto l’attività del gruppo complica gli sforzi che stanno compiendo per ottenere riconoscimento internazionale e mettere sotto controllo l’Afghanistan, che è sede dell’attività di un altro gruppo terrorista, l’Iskp (Islamic State Khorasan Province) avverso al regime talebano. Da quest’ultimo punto di vista è infatti plausibile che i talebani abbiano avuto un qualche tipo di ruolo attivo nell’eliminazione di al-Zawahiri, magari fornendo informazioni sulla sua posizione agli Stati Uniti.

Pubblicato da edizioni24

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