By Luca Fazzo
Una sentenza annunciata, emessa da un giudice che aveva già nelle settimane scorse pubblicamente bollato il piano di Giorgia Meloni come «un accordo giuridicamente irrealizzabile» basato su «una forte limitazione del diritto di difesa», messa in atto da un governo affetto da «schizofrenia» in materia di giustizia. Non serviva, insomma, la sfera di cristallo per prevedere come sarebbe andata a finire la faccenda, quando il trasferimento dei migranti all’hotspot in Albania è arrivato sul tavolo del giudice Silvia Albano. Perché la sua opinione la Albano aveva provveduto a renderla nota con buon anticipo, appena il piano di trasferimento era stato varato.
Di solito i giudici non fanno conoscere in anticipo la loro opinione sui casi che devono decidere. Ma la Albano – 63 anni, padovana ma da tempo trasferita in Lazio – incarna due anime: fa il giudice alla sezione immigrazione del tribunale di Roma, ma è anche presidente nazionale di Magistratura democratica, la corrente delle toghe rosse. Nella sua attività sindacal-politica, la dottoressa si è sempre schierata con l’ala più radicale, tanto da fare parte del gruppo che ha guidato il distacco dal correntone di Area, accusato di non essere sufficientemente di sinistra.
É in questa seconda veste di leader di Md che Silvia Albano ha liquidato fin dall’inizio il piano del governo Meloni come una «deportazione», una violazione dei diritti umani e delle norme comunitarie, «un respingimento collettivo che è vietato dalle direttive europee». Quando il tribunale di Catania aveva liberato tre clandestini trattenuti in base alla nuova legge, la Albano aveva commentato così sulla rivista della corrente: «Si tratta di principi elementari cui applicazione, soprattutto nella materia del diritto dell’immigrazione, dà luogo a reazioni scomposte».
Si può immaginare che la Albano non vedesse l’ora di potersi occupare del piano governativo anche in veste di giudice. E il caso ha voluto che tra i sedici giudici che lavorano alla sezione immigrazione del tribunale di Roma, il decreto di trattenimento firmato dal questore di Roma per i dodici profughi rinchiusi a Gjader arrivasse sul suo tavolo.
La Albano era pienamente consapevole, quando ha firmato l’annullamento, di mettersi in rotta di collisione col governo. Ma anche di avere la piena tutela della sua superiore diretta, il presidente della sezione immigrazione Luciana Sangiovanni, che infatti ieri si affretta a emanare un comunicato stampa rivendicando la correttezza della decisione, e spiegando che «i trattenimenti non sono stati convalidati in applicazione dei principi, vincolanti per i giudici nazionali», sanciti dalla corte di giustizia europea.
Il rapporto tra Silvia Albano e la Sangiovanni è di consolidata stima reciproca, a dispetto della differenza di corrente (la presidente oscilla tra Area e i centristi di Unicost). Tanto che quando la Sangiuliano finì nei guai per le famose chat dell’Hotel Champagne, la Albano la difese strenuamente. E alla fine vinse lei, nonostante a chiedere la testa della Sangiovanni fosse proprio Magistratura democratica per bocca del suo leader di allora Giuseppe Cascini. Il plenum del Csm aveva spedito la Sangiovanni al tribunale di Bologna, etichettandola come «reiterata dispensatrice di informazioni e di sollecitatrice verso altri magistrati».
Ne era nato uno scontro all’interno di Md tra Cascini e la Albano, e alla fine il Tar del Lazio aveva annullato il trasferimento: rimandando la Sangiovanni alla guida della sezione immigrazione di Roma. Da cui, ieri, dirama il bollettino della sconfitta del governo Meloni.