By Giovanni Sallusti
«Alcuni sondaggi sono buoni solo come carta igienica. Nel 2016 qualche esperto dava sicura al 99% la vittoria di Clinton contro Trump». La fonte è al di sopra di ogni sospetto di bavosi istinti filotrumpiani: Alec Ross, “guru” dem che ha guidato la politica tecnologica per le campagne di Obama e della stessa Hillary, in una conversazione con L’Espresso.
Non ci spingeremo al punto di suggerire l’utilizzo alternativo delle rilevazioni demoscopiche per l’igiene personale, anche perché su queste colonne perderebbe subito l’allure di provocazione brillante garantita dall’accoppiata Ross-Espresso, e verrebbe degradata a volgarità da bar sovranista.
Ci permettiamo solo di mettere il dito nella piaga, anzi nel fossato tra la realtà dell’America e il racconto degli americanologi di casa nostra, intenti a darsi ragione tra loro sulle terrazze romane o milanesi. Non esiste la marcia trionfale di Kamala verso le magnifiche sorti e progressive d’Occidente, col Puzzone che annaspa dietro, irrimediabilmente sconfitto dalla “gioia” Woke (copyright Oprah Winfrey, prontamente copia&incollata nelle suddette terrazze).
Esiste una partita più che aperta, spalancata come la Frontiera, esiste il grande spettacolo della democrazia americana all’opera, esistono Stati-ballerini che continuano a ballare (e ancora più verso il rosso repubblicano, per la verità), esistono sondaggi in serie quotidiana che dicono tutto e il suo contrario.
ELETTORATO FEMMINILE
Esclusiva Reuters/Ipsos di ieri: Harris è in testa col 45% contro il 41% di Trump, spinta soprattutto dall’elettorato ispanico e da quello femminile. La percentuale nazionale, in ogni caso, conta giusto un filo più del due di picche con briscola quadri. Contano gli Swing States, ed ecco un’altra freschissima rilevazione firmata Emerson College che fotografa l’incertezza assoluta. Lieve vantaggio di Kamala in Michigan, Georgia e Nevada; lieve vantaggio di The Donald in Arizona, North Carolina e Wisconsin; parità perfetta al 48% in Pennsylvania.
«La sfida tra continua ad essere un testa a testa», sentenzia il direttore dell’Emerson College Spencer Kimball, non devono averlo avvertito della melassa kamalaina che cola quotidianamente sulle prime pagine dei giornali italiani. Oltreoceano, viceversa, è un caleidoscopio di cifre, segmenti, incollature. Morning Consult e Usa Today danno avanti la vicepresidente, rispettivamente di 4 e 5 punti. Echelon Insights invece dice Donald Trump, seppur di poco, 49%-48%.
Anche l’ultimo Rasmussen Report (da tenere d’occhio, uno dei pochissimi a non essere stato fuorviato otto anni fa dal conformismo pro-Clinton) segna un 48%-46% per il repubblicano. C’è poi il caso di YouGov, che in una rilevazione di un paio di giorni fa per Yahoo News riportava la Harris in lievissimo vantaggio 47%-46%, mentre in un’altra diffusa ieri per l’Economist mostrava che Trump sta prevalendo del 5% fra gli elettori indipendenti (anche in conseguenza dell’endorsement firmato Robert Kennedy): la certificazione plastica della precarietà integrale della contesa. Ieri perfino il blog di Nate Silver (analista e statistico di non velate simpatie liberal, che azzeccò molte elezioni ma toppò clamorosamente il fenomeno-Trump) scriveva che «le previsioni di novembre sono il più vicino possibile al 50/50».
Ecco, questa forse è la miglior morale provvisoria dopo il guazzabuglio di dati, tendenze e controtendenze: siamo il più vicino possibile al 50/50%, in primis secondo istituti vicini alla candidata Harris in carne e ossa, ma non sdraiati sul bozzetto palingenetico della Kamala immaginaria, come il nostrano sistema della (dis)informazione. Il tutto con una postilla macroscopica: questo termometro di sostanziale parità è il verdetto interno alla bolla, all’ecosistema professionale dei sondaggisti, degli analisti, dei commentatori. Lo stesso che, globalmente, nel 2016 assegnava a Donald Trump il 2% di possibilità di vittoria.
Lo stesso che anche nel 2020 sottostimò nettamente il candidato repubblicano, mostrando di non avere l’autocritica tra le proprie doti più sviluppate. Non ci fu nessuna onda blu, quattro anni fa, ci fu una contenuta vittoria di Joe Biden (ottenuta in condizioni di voto oggettivamente anomale a causa della pandemia), e addirittura nel crogiolo politico-antropologico del MidWest (che rischia di essere il fattore decisivo tra due mesi) l’errore sui consensi di The Donald fu ancora maggiore.
EFFETTO-CONVENTION
Bene: lo stesso microcosmo che nella migliore delle ipotesi ha ostentato un’incapacità strutturale di pesare il gradimento del trumpismo presso gli elettori americani (se non un pregiudizio ideologico che vizia costantemente l’approccio scientifico ad esso), oggi proclama con voce pressoché unanime che la corsa è apertissima, voto su voto, Stato su Stato, coi candidati allo specchio che scrutano analoghe possibilità di vittoria.
Ci sentiamo di sbilanciarci: è assai improbabile che improvvisamente, dopo quasi un decennio in senso contrario, siano passati a sovrastimare Trump. È lievemente più verosimile che, tanto o poco, sia Kamala ad essere gonfiata dalla bolla. Aggiungete che l’effetto-convention sta sfumando, e che prima o poi la vicepresidente s’imbatterà in un giornalista che farà una domanda vera, e soppeserete quanto vale il trionfalismo al di qua dell’Atlantico. Ancora meno dei sondaggi sull’altra sponda.