In Africa scorre sangue: attentati alle miniere d’oro: l’ombra della Wagner

La prima (e ultima) volta che il mondo si è interessato al Centrafrica era il 4 dicembre 1977. Quel fatidico giorno il presidente Jean-Bédel Bokassa si proclamò imperatore del suo sperduto staterello: l’ex sergente delle truppe coloniali francesi, perdutamente innamorato dell’epopea bonapartista, realizzava così il sogno di bimbo, diventare il Napoleone africano. La stravagante cerimonia d’incoronazione, con trono dorato di 3 metri a forma d’aquila, corona d’oro, cinquemila invitati, costò 25 milioni di franchi ovvero un quarto degli aiuti annui di Parigi all’ex colonia e fece sghignazzare l’intero pianeta. Poi il disinteresse assoluto.

Gli unici a parlare per qualche tempo del Centroafrica furono i francesi. Nella primavera 1979 Valery Giscard d’Estaing venne travolto dallo scandalo dei “regalini” – un milione di franchi in diamanti – ricevuti da Sua Altezza imperiale per glissare sulle ripetute accuse di massacri indiscriminati, cadaveri nel frigo, cannibalismo e altre facezie. Nel settembre Giscard, sempre più imbarazzato, ordinò l’operazione Barracuda e i parà deposero l’ingombrante amico. Licenziato l’imperatore e messe in sicurezza le risorse minerarie (uranio, oro, diamanti, terre rare, petrolio), anche i gallici si dimenticarono presto dello sventurato Paese che da allora si trascina tra golpe, siccità, carestie e guerre civili.

Nel 2013 la Francia è intervenuta senza troppa convinzione dispiegando i suoi soldati nella missione Sangaris ma presto l’allora presidente Hollande diede ordine di ritirare il contingente, lasciando così la patata bollente all’Onu che l’anno dopo inviò 14 mila caschi blu (la missione “Minusca”) per stabilizzare il lacerato paese. Peccato che l’intervento della Nazioni Unite – affidato a truppe africane – si sia rivelato disastroso.

Così, nonostante l’elezione nel 2016 del matematico Faustin-Archange Touadéra e l’avvio di un farraginoso processo di riconciliazione nazionale la violenza continua a dilagare (il governo di Bangui controlla malamente solo il venti per cento del territorio, 3 prefetture su 17) e oltre 500mila persone hanno cercato rifugio oltreconfine. L’economia della piccola repubblica è crollata e oggi la stragrande maggioranza della popolazione vive con 89 centesimi di euro al giorno.  Un disastro pieno.

Ma in politica come in natura i vuoti si riempiono sempre. Nel 2017 il presidente Touadéra incontrò a Sochi il ministro degli Esteri russo Lavrov. Al termine del colloquio un comunicato evidenziava “la potenzialità del partenariato per lo sfruttamento delle risorse minerarie e la fornitura di materiale militare russo, di macchinari agricoli e di energia”. Subito dopo Mosca chiese al Consiglio di sicurezza dell’Onu una deroga sull’embargo delle armi, in vigore dal 2013 in Repubblica Centrafricana, in modo da poter donare armamenti e iniziare un programma di addestramento delle Forces armées centrafricaines.

Un primo passo. La guardia presidenziale è stata subito rafforzata da una sezione delle forze speciali di Mosca, che assicura la “prima cintura” attorno a Touadéra, e nel 2018 è stato firmato un accordo militare. In cambio Bangui ha concesso a due società russe – Lobaye Invest e la Sewa Security Service – lo sfruttamento dei giacimenti di Ndassima, Birao, Bouar e Bria. Un regalo gradito al Cremlino poiché le aziende sono di proprietà di Prigozin, il sulfureo patron del gruppo Wagner Lo “chef di Putin” ha affidato ai suoi uomini la difesa delle miniere e, quando serve, la sicurezza del governo.

Negli ultimi mesi Touadéra, sempre alla ricerca d’investitori stranieri, ha aperto le porte del Paese anche alla Cina convinto, alla luce del forte riavvicinamento tra Pechino e Mosca, che le due potenze potessero tranquillamente convivere (e sostenerlo per il suo terzo mandato). Probabilmente un errore di valutazione. Appena i tecnici della Gold Coast Group, società mineraria di Pechino, sono sbarcati a Bangui sono iniziati i problemi. Sempre più pesanti.

Nelle ultime settimane le installazioni cinesi sono state più volte attaccate da misteriosi banditi. A inizio marzo tre ingegneri sono stati rapiti a Gbembo nell’ovest del paese e domenica 19 nove tecnici cinesi che lavoravano nella miniera d’oro di Chingbolo sono stati massacrati. Un’esecuzione in piena regola con tanto di colpo di grazia e, come sempre, senza testimoni. E nello stesso giorno, a pochi chilometri di distanza, qualcuno ha sparato su due cooperanti cinesi ferendoli gravemente. Un’escalation che ha subito allarmato Xi Jimping che ha immediatamente chiamato il frastornato Touadéra chiedendogli di “fare ogni sforzo per salvare i feriti e punire severamente gli assassini”. Al tempo stesso l’ambasciata cinese ha dato ordine di evacuare al più presto i tecnici dalle zone a rischio. Praticamente l’intero Centrafrica.

Il governo di Bangui ha immediatamente incolpato la “Coalition des patriotes pour le changement”, lo schieramento d’opposizione diretto da François Bozizè, ex presidente in esilio, considerato da Touadéra un’emanazione dei servizi francesi. Il vice premier, Evariste Ngmana, si è detto certo che dietro a questa improvvisa caccia ai cinesi vi siano «mercenari stranieri al soldo di potenze che, nei secoli, hanno usato la violenza come arma per mantenere il paese in caos permanente». Un evidente riferimento a Parigi.

A sua volta il Cpc ha respinto le accuse denunciando invece una macchinazione «orchestrata dalla Wagner in collaborazione con gli uomini di Touadéra». Parole pesanti ma prive di prove. Resta il fatto che, alla luce della dispendiosa campagna in Donbass, Prigozhin ha intensificato l’attività delle sue società minerarie in Centrafrica con nuovi investimenti che non sembrano prevedere alcuna sinergia con gli alleati (ma pure concorrenti) asiatici. Di certo in questi giorni tra Mosca e Pechino si discute anche di Bangui.  

Pubblicato da edizioni24

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