Il peccato originale di Kamala Harris

By Orlando Sacchelli

Ha vinto a mani basse Donald Trump. Forse neanche lui immaginava di imporsi con questa forza. Ma è stata una battaglia alla pari? Col senno di poi sicuramente no, anche se lavorare alla Casa Bianca, anche come vice, porta sempre qualche vantaggio. Eppure Kamala Harris ha pagato un “peccato originale” per certi versi insormontabile. È stata cooptata da un gruppo ristretto di leader di partito (Obama, Pelosi e i Clinton), non si è “fatta da sola” con le primarie, che storicamente si vincono con fatica, sudore e soldi, oltre che con qualche buona idea condita da massicce dosi di retorica. Lei no, è stata messa lì, a correre contro Trump, per un calcolo a freddo di chi tiene le redini del partito dell’Asinello. Calcolo che è andato male, a ben vedere.

Biden sarebbe andato meglio? Non lo sappiamo. Probabilmente no, vista l’età e le condizioni di salute non proprio ottimali. Non che Trump sia un ragazzino, ma Biden ha avuto un decadimento notevole negli ultimi anni. Lui stesso nel 2020 si definì un “presidente di transizione”: ecco, se avesse dato seguito a questo pensiero, ritirandosi al momento opportuno, i democratici avrebbero potuto creare qualcosa di nuovo, vedendo emergere una nuova leadership e mobilitando, in modo più energico (e vitale) la base elettorale. Sarebbe stata una nuova ricetta, non sappiamo se vincente o meno, ma sicuramente non una sciapida minestra riscaldata per niente amata dai cittadini.

I democratici non hanno avuto la forza e il coraggio di convincere il presidente a fare un passo di lato quando sarebbe stato utile (di certo non all’ultimo, come poi è avvenuto). Quando lo hanno fatto era troppo tardi. Per giunta il disarcionamento di Biden è avvenuto con una mossa un po’ squallida. Lo hanno “massacrato”, dandogli del rimbambito, dopo l’imbarazzante dibattito in diretta tv con Trump, e visto che lui non voleva saperne di mollare, gli hanno chiuso i rubinetti dei finanziatori, privandolo delle munizioni necessarie per portare avanti una campagna elettorale e, quindi, disarmandolo. Si è fatto da parte, obtorto collo, e magicamente la sua vice, Kamala Harris, ha cominciato a raccogliere milioni di dollari come se non ci fosse un domani. Con questi fondi, uniti ai soldi già raccolti da Biden, ha alimentato una campagna elettorale di rincorsa, giocata in meno di tre mesi, obiettivamente troppo poco per ribaltare l’immagine negativa che i cittadini in buona parte avevano di lei.

Gli americani votano guardando innanzitutto al portafogli, si dice spesso. Ed è probabile che sia andata così anche stavolta. Però è altresì vero che Kamala non portava con sé alcun messaggio di forza, speranza e cambiamento. Esprimeva solo un desiderio di “conservazione” anti Trump, arrampicandosi sui “buoni” risultati conseguiti dalla presidenza Biden, che però non sono stati giudicati tali dagli elettori.

Il popolo americano ha puntato ancora una volta sulla voglia di cambiamento rappresentata da Trump, concedendogli un bis otto anni dopo la prima volta.

Il peccato originale di Kamala, quel suo non essere stata scelta dal basso ma dall’élite del partito, ha tagliato la testa alle aspirazioni della seconda donna che ha sfiorato il sogno di sedersi sulla poltrona più ambita degli States.

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