Il comunicato di Kiev alla Russia: “Putin ritiri i suoi soldati”. Gli Usa accendono i riflettori e sono pronti a sanzionare

Notizie decisamente truculente («Mosca ha spostato scorte di sangue e forniture mediche oltre a incrementare gli spostamenti di truppe verso il confine ucraino») continuano ad arrivare da fonti militari americane a conferma della probabile volontà di Vladimir Putin di lanciare entro breve un’invasione non si sa se e quanto limitata dell’Ucraina.

Non solo: ieri una granata anticarro sparata dai separatisti filorussi nella provincia di Lugansk ha ferito un soldato ucraino, ricordando quanto possa essere facile accendere la miccia di un conflitto. A Kiev il presidente Volodymyr Zelensky chiede il ritiro dei russi e continua da una parte a incoraggiare l’afflusso da parte dell’Occidente di aiuti militari ed economici, dall’altra a insistere presso quegli stessi Paesi che lo sostengono perché non esagerino nell’alimentare presso l’opinione pubblica ucraina la psicosi di una guerra imminente. È davvero un lavoro difficile quello del leader ucraino, consapevole che il panico sarebbe una delle armi migliori in mano all’invasore russo, ma anche che diminuire i segnali di allarme fa solo il gioco del Cremlino, la cui propaganda sostiene che in questa crisi i veri guerrafondai sarebbero gli occidentali (anche se la Nato ripete di non avere in agenda l’adesione dell’Ucraina e di non volervi inviare truppe in nessun caso).

Una simile apparente contraddizione si può osservare nello stesso fronte occidentale. Ciascuna per proprie ragioni politiche interne Gran Bretagna e Francia (le due principali potenze militari europee) sgomitano per guidare la reazione Nato alle minacce russe ai partner orientali: Boris Johnson promette di mobilitare forze e armamenti da destinare a Est per far dimenticare a livello internazionale i suoi grossi problemi interni, Emmanuel Macron non perde l’occasione di ricordare al mondo che in questo momento l’Ue è guidata da Parigi, cioè da lui (almeno fino alle prossime elezioni in aprile): così gestisce contemporaneamente i contatti diplomatici con Putin e l’invio di un contingente militare francese a sostegno della Romania.

Dalla parte opposta c’è la Germania, il cui Cancelliere Olaf Scholz vedrà il 7 febbraio Biden per opportuni chiarimenti. Berlino non brilla per coerenza: da una parte, per compiacere Putin, cerca di bloccare l’invio di pezzi d’artiglieria Nato dall’Estonia all’Ucraina sostenendo che in origine erano tedeschi (per l’esattezza della defunta DDR), dall’altra promette di fermare per rappresaglia in caso di invasione anche col pretesto del continuo rinvio dell’ok alla certificazione ufficiale necessaria ad avviarlo – il gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2, una fonte di energia vitale non solo per il riscaldamento delle case, ma anche per il funzionamento delle fabbriche tedesche.

Ma il fronte più interessante rimane quello russo-americano. Ieri il ministro russo degli Esteri Sergei Lavrov ha insistito per ottenere da Biden «relazioni paritarie nel mutuo interesse» (un modo ambiguo per reiterare la pretesa di vedersi riconoscere dagli Usa un’antistorica zona d’influenza in Europa). Ma nello stesso momento in cui il Senato Usa si prepara ad approvare «la madre di tutte le sanzioni contro Mosca», l’ex presidente Donald Trump, in un comizio nel Texas, torna a suonare la musica preferita da Putin: Biden ci porterà a una guerra mondiale, non dovrebbe inviare truppe in Europa ma al confine col Messico per fermare gli immigrati. In tanta confusione una certezza: a Mosca un ritorno dell’isolazionista Trump alla Casa Bianca piacerebbe moltissimo.

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