Gaetano Daniele: “Fa fatica vivere tra scartine. Me ne frego del politicamente corretto…”

By Gaetano Daniele

La vera rivoluzione in questo mondo di scartine è la normalità.

Il processo alle parole di uso comune è diventato uggioso. I comandamenti del politicamente corretto stabiliscono quali sono i vocaboli leciti e illeciti, e chi sgarra e ne usa altri viene messo alla berlina o addirittura condannato dai laureati dei social network. Per i quali è vietato scrivere che un negro è un negro. Bisogna dire nero. Quasi che ci fosse una differenza sostanziale fra i due termini. Che invece non esiste. Oppure bisogna sostituire la parola puttana con prostituta o baldracca. Se una donna vende il proprio corpo in cambio di soldi o di un posto di lavoro, portandosi a letto il titolare e magari nel corso degli anni fa anche due aborti di padri ignoti, non è una puttana, ma una prostituta. Caso mai anche ingenua e vittima di una società di scartine: porella, non ha seguito altro quello che ha visto nel corso della sua adolescenza.

Io resto dell’idea che chi nasce mignotta morirà tale come chi nasce nero non potrà mai morire bianco e viceversa.

Preciso. Non ha valenze negative, o peggio, spregiative. Ma in un mondo di sccartine, bisogna stare attenti alle parole nonostante il significato non cambia.

Ricordate la poesia: “…sotto la terra fredda… la terra negra…”. A nessuno è mai venuto in mente che la lirica in questione fosse offensiva. Anche la Nigeria dovrebbe, applicando la logica dei fighetti, cambiare nome. Ada Negri sarebbe obbligata a mutare identità? Stiamo rasentando il ridicolo. Molti lettori ricorderanno alcune canzoni: “Siamo i vatussi, altissimi negri, ogni due passi facciamo tre metri…”. Oppure: “In una foresta del centro Catanga c’è una tribù, una tribù de negher del menga…”. Censuriamo anche queste? Volevano processarmi per aver chiamato negro uno di colore, e per aver dato della puttana ad una ragazza che vendeva il suo corpo ad uomini con la speranza di tornacontI benefici. Praticando tra l’altro anche due aborti. E per aver dato del ricchione ad un gay. Per fortuna sono arrivate le archiviazioni. Il buon senso ha prevalso.

Io parlo sempre con cognizione di causa senza mai voler essere offensivo ma semplicemente attribuisco, prove alla mano, il significato di ogni parola alle azioni protratte dai singoli. Nulla più nulla meno.

Veniamo ai froci, alle checche, ai finocchi, ai busoni. Guai a denominarli così. È necessario definirli gay, cioè in inglese. O omosessuali, gergo medico. Non possiamo usare l’italiano o il lessico regionale che pure ci appartiene. Quando a 19 anni mi sbatterono a 950 chilometri per servire la madre Patria, i culattoni erano appellati in maniera diversa: pederasti. Poi diversi. Ma che bisogno c’è di stravolgere l’idioma se un frocio rimane comunque un frocio a prescindere dall’epoca in cui esercita? Un ricchione non cambia gusti sessuali se lo etichetti gay. Dov’è il problema? Il vocabolario, l’eloquio popolare ha il pregio della sincerità; quello del politicamente corretto è ipocrita, falso, artificiale.

Preferisco il turpiloquio, quello da trivio, che almeno è spontaneo. Quelli che per fare i fighi senza esserlo (te ne accorgi subito, mettono sopra ogni cosa la loro esperienza senza saper fare la 0 cin il culo del bicchiere) dicono masturbazione anziché pippa o ditalino, che fessi. Masturbazione infatti deriva dal latino: manu stuprare. Che evoca una immagine orrenda. Uno che si stupra da solo con una zucchina o con una melanzana perché depressa o peggio perché glielo ha suggerito la psicologa come minimo è da ricoverare, insieme alla psicologa, possibilmente in camere separate. Cito a memoria e posso sbagliare. Il diritto canonico, che pochi conoscono, era assai più scientifico e preciso. Recitava: “plena satisfactio libidinis cum effusione seminis sine copula”. Molto elegante. Ma si fa prima tra amici a dire: pugnetta. Portare il dizionario in tribunale è da imbecilli.

Una prostituta resta puttana. Un frocio resta gay, e un negro resta nero. E un povero fesso un fesso.

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