[Esclusiva] Forze Speciali, Simbad ad ith24: “Vennero mercenari da ogni dove per catturare Gheddafi”

[Esclusiva ith24]

In esclusiva mondiale, Simbad ci fa recapitare un racconto di una missione avvenuta in Libia. Ci manda anche una foto. Come più volte scritto di Simbad si sono perse le tracce. Non conosciamo se sia o meno operativo o al servizio di qualche nazione per la sicurezza nazionale. Le voci lo danno in Russia. Altre voci in Cecenia. Chi dice di averlo visto in Europa. Non si sa. La foto aiuta poco, ma di sicuro è un confine di un Paese dell’Est. Fatto è che anche il Simbad sceglie ith24 per raccontare quanto avvenuto sotto il suo comaando.

By Simbad

Quella notte di fine agosto nella città presa dai combattimenti tutto era particolarmente cupo, tombale. Nell’abisso della ragnatela dei vicoli stretti non arrivava nemmeno un vago raggio di luna, nessun riflesso del cielo, anche se quella notte era così ricco di stelle che sembrava un tappeto persiano con ricami d’oro. Le case attaccate una all’altra formavano un’unica muraglia serpeggiante, come quella di un enorme labirinto con molte entrate e nessuna via d’uscita. Ogni tanto il soffio del caldo vento africano, una leggera corrente accarezzava la pelle vicino ai passaggi che conducevano a un sistema di comunicazione segreto, collegando i cortili interni e i sotterranei di tutta la città.

Da qualche parte in quei vicoli oscuri, nascosti dentro le nicchie, aspettavano la loro ora i vendicatori di Muammar Gheddafi: cecchini stranieri, killer venuti da tutto il mondo per fare soldi impugnando le armi contro il popolo in rivolta. Erano loro l’arma segreta del rais, quella che ha inchiodato per mesi i ribelli inesperti e che in quei giorni stava costringendo la gente di Tripoli a tenere la testa bassa. Anche i primi gruppi entrati nella capitale si erano fermati davanti al tiro infallibile di quei mercenari.

Contro di loro bombe e missili erano inutili, anzi peggio: avrebbero solo fatto strage di civili tra le case dove si appostavano come forse è accaduto diverse volte nella guerra di Libia. C’era un solo modo di toglierli di mezzo: sfidarli a duello, uomo contro uomo, fucile contro fucile. La Nato ha fatto così. Nel segreto ha radunato i tiratori migliori dell’Alleanza e li ha fatti scendere in campo per spazzare via i pretoriani del regime. Tra loro c’erano anche militari italiani, a cui è stata affidata una missione di cui nessuno vuole parlare e che nessuno confermerà mai: ufficialmente il governo Berlusconi ha mandato in Libia solo 20 addestratori. Invece Ale, un incursore della Marina Militare, ha combattuto tra i palazzi di Tripoli per aprire la strada alla rivolta: la sua mira è stata decisiva per decretare la fine della dittatura. Ale è un operatore del Comsubin, i leggendari commandos italiani: non aspettatevi un colosso con i muscoli scolpiti, come tutti gli uomini del suo reparto sa nascondere le sue virtù. In Libia ha fatto parte della squadra più speciale schierata dalle forze occidentali: assieme a lui c’erano un francese della Legione straniera, un britannico del Sas e due marines statunitensi.

Tutti veterani, tutti più addestrati dei loro avversari ingaggiati da Gheddafi: una minuscola Task Force Sniper diventata “l’elemento critico”, ossia quella che i manuali militari indicano come l’arma in grado di cambiare le sorti di un conflitto, come la bomba atomica nel 1945. Per Ale e i suoi compagni Tripoli è stata la prova più dura. Le avanguardie degli insorti si erano arenate nella zone sud-est, dove una falange di fucilieri invisibili per giorni ha abbattutto chiunque cercasse di passare. Gli agenti dei servizi segreti occidentali che accompagnavano i rivoluzionari hanno subito chiesto l’intervento della Task Force Sniper. E quando i cinque commandos hanno cominciato a farsi largo tra la folla di miliziani improvvisati, tutti si sono resi conto che i nuovi arrivati sapevano il fatto loro. Ogni dettaglio li identificava come veterani. I calzettoni pesanti infilati sopra gli scarponcini per penetrare in silenzio nei covi dei nemici; i giubbotti antiproiettile con la protezione aumentata sul petto; la scorta abbondante di munizioni infilate ovunque; i serbatoi d’acqua a “gobba di cammello” sulla schiena. E quel particolare che segnalava l’esperienza di chi ha già visto la morte in faccia: portavano kit di pronto soccorso sparpagliati in varie parti del corpo perché in caso di ferita al fianco o sul braccio è molto difficile allungare i muscoli per raggiungere una tasca lontana. E per farlo si rischia o di morire dissanguati o di esporsi al tiro letale. I cinque avevano sempre serrati nelle mani i mitragliatori Ar 15 con silenziatori di ultima generazione: ogni raffica è poco più di un sibilo perché nell’umidità libica il vento trasporta i rumori molto velocemente e può tradire la posizione di chi spara.

Quegli Ar 15 però servono solo per evitare sorprese; i ferri del mestiere sono altri, custoditi in zaini saldati sulle spalle: potentissimi fucili con mirino ottico. Ogni arma è differente, costruita personalmente dal tiratore che innesta e modifica componenti del suo fucile per essere sicuro di fare centro a mille metri. Il primo problema per la squadra è quello di raggiungere il fronte. Bisogna attraversare cortili ed entrare nelle case, facendo attenzione a non strappare il filo con il quale è fissato il detonatore delle bombe a mano che spesso i civili lasciano sulle porte delle loro abitazioni prima di andare a dormire per paura di lealisti e sciacalli. Era necessario muoversi leggeri ma anche evitare di farsi ammazzare dai ribelli, in preda all’euforia della rivoluzione: ogni straniero era sospetto. Per questo davanti a tutti camminava il legionario francese, che parla l’arabo e conosce le parole d’ordine degli insorti. Avvicinandosi alla linea del fuoco, il rumore indistinto lascia spazio a note che fanno capire ai commandos quanto sia complessa la situazione. Al baccano della selva di Kalashnikov dei rivoltosi rispondevano radi colpi secchi dei Dragunov, i fucili di precisione dei pretoriani. In fondo al vicolo si riesce a scorgere la piazza, il vuoto che aveva fermato la marcia festosa dei ribelli: si vedeva una jeep con una mitragliera a doppia canna avvolta dalle fiamme. Attorno al veicolo, sdraiati nelle posizioni più innaturali, una decina di cadaveri che formavano una specie di catena. I cecchini si erano dedicati al loro gioco preferito: colpivano una persona alla gamba sparando altri proiettili a vuoto, in modo da non mostrare la loro abilità e far sottovalutare il pericolo.

Poi aspettavano che qualcuno si muovesse per soccorrere il ferito e lo centravano; sempre alla gamba, sempre simulando tiri inesperti. In situazioni del genere, quando vedi un amico che implora aiuto mentre perde fiotti di sangue, si fatica a ragionare. Ma in questa maniera i cecchini riescono a decimare interi plotoni: solo alla fine, sfoggiano la loro perizia e finiscono le vittime con un colpo alla fronte. Dopo il massacro, l’avanguardia dei ribelli si era barricata in un palazzo. Una trentina di guerriglieri sparavano fiumi di pallottole alla cieca: non osavano sporgersi alle finestre per prendere la mira e facevano fuoco a casaccio. Ogni tanto qualcuno di loro si esponeva per qualche secondo di troppo ed ecco arrivare il proiettile del tiratore scelto nemico. Quando Ale e i suoi sono arrivati nell’avanposto hanno capito di avere di fronte dei professionisti. La posizione dei nemici era ideale, dall’alto riuscivano a dominare tutta la piazza e al sorgere del sole potevano colpire le persone come se fossero palloncini esposti nel tiro al bersaglio di un luna park. Bisognava eliminarli prima dell’alba. Nel cortile i ribelli avevano sistemato per terra i corpi dei loro caduti: alcuni erano ragazzi, troppo giovani per questa guerra. Ale e i suoi sono passati in fretta attraverso l’ultimo spiazzo, accompagnati con sguardi pieni di curiosità e una specie di solidarietà dei ribelli, poi si sono divisi. La coppia di marines si è piazzata sul tetto, il francese e l’inglese sono entrati in un altro cortile. Ale si è spostato più avanti di tutti. E’ entrato in un appartamento con il mitra spianato e si è trovato davanti una famiglia terrorizzata: li ha tranquillizzati con qualche parola d’arabo ed è salito al secondo piano. In fondo a un corridoio buio e stretto si è imbattuto nel cadavere di una vecchia donna abbattuta davanti alla finestra, che stringeva tra le mani una coperta. Probabilmente la poveretta aveva tentato di coprire il vetro ma il cecchino si arrabbia sempre quando si accorge che qualcuno vuole fregarlo e l’ha ammazzata. Ale strisciando si è avvicinato alla finestra: c’era una vista ottima sulla casa di fronte. Allora l’incursore italiano ha posato il mitra e accesso la radio: nell’auricolare sentiva le indicazioni sussurrate dai colleghi che avevano già scoperto due dei cecchini nemici, usando apparati elettronici che individuano suoni e calore.

Era ora di prepararsi al duello. Con una fatica enorme, ha spostato il corpo della donna e lo ha coperto con un tappeto. Poi ha messo un comodino accanto alla finestra, vi ha poggiato la sua arma – una Remington 700 Police – e si è seduto nella sua posizione di tiro. Ha appoggiato il calcio sulla spalla e ha provato il cannocchiale: tutta la facciata della casa di fronte si vedeva perfettamente. Ha calcolato distanze, umidità, vento e poi ha dato il via libera: «Sono pronto». I nemici si sentivano tranquilli e sparavano più volte prima di cambiare finestra: un errore madornale. Dal tetto l’ufficiale dei marines ha assegnato i bersagli: uno per ogni tiratore, che avrebbe aspettato la prima sparatoria dei ribelli per aprire il fuoco senza tradirsi. Pochi attimi dopo si è librata nell’aria una lunga raffica di mitragliatrice pesante, che l’imperizia dei ribelli ha diretto in alto illuminando il cielo con le scie folgoranti dei traccianti confuse tra le stelle. Ale non ha visto quell’uomo, lo ha percepito: una sagoma opaca nel buio profondo, che anni di addestramento gli avevano insegnato a distinguere. Ha mirato al petto, ha trattenuto il respiro per un attimo e ha premuto il grilletto del suo fucile molto piano. L’arma ha fatto un rumore profondo e potente e l’ombra nel mirino si è dissolta, come se fosse stata spazzata via da un vento compatto e denso. Nell’auricolare quasi all’unisono i membri della squadra hanno confermato di aver colpito i loro bersagli, come se avessero sincronizzato pensieri, decisioni e movimenti. La notte arrivava alla sua fine, lontano all’orizzonte appariva la prima e sottile linea della debole luce. Era il tempo di muoversi verso un altro bunker dei gheddafiani, per aprire un’altra porta alla rivoluzione. Ale camminava per la strada, portando dietro le spalle l’arma e un enorme trafila di ricordi legati ai posti come quello, dove ogni giorno e notte qualcuno come lui impegnava le proprie forze e capacità per poter sentire sulla propria pelle il dolce soffio del vento della libertà. Un’altra notte, un’altra missione che né lui né i suoi compagni avrebbero mai potuto raccontare.

Pubblicato da edizioni24

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