Cuperlo ammette: “Stiamo sulle scatole a buona parte del Paese. Il Pd rischia l’irrilevanza”

“Stiamo sulle scatole al Paese”. E’ il solitamente sobrio Gianni Cuperlo finalmente a dare voce a un verità che si può constatare anche empiricamente andando in giro tra le persone che hanno mollato il Pd. «Non voglio eludere il problema e la dico con un linguaggio che non è il mio: noi stiamo letteralmente sulle scatole a una parte della società italiana; si è spezzato un rapporto e un legame di fiducia con una parte del Paese». Gianni Cuperlo in un’intervista sulla Stampa, dice la sua su quale futuro aspetti un partito disastrato e in totale sbandamento. Tra antichi livori (Cirinnà), tra chi invoca una “scisssione”, chi il cambio di nome, chi tenta “innamoramenti” per Elly Schlein alla segreteria, tra chi si autocandida alla guida del Pd (Paola De Micheli), parla Cuperlo e offre un punto di vista più realista.

E’ uno dei leader della sinistra interna del Pd, che  torna in Parlamento dopo cinque anni di pausa forzata “causa Renzi”, dice. Triestino, 61 anni, va in controtendenza rispetto a tutti. Tanto per aggiungere un altro punto di vista alla confusione che sta travolgendo il Nazareno. Cuperlo stronca l’appello di Rosy Bindi che, sempre dalle colonne della Stampa, ha chiesto al partito di sciogliersi, richiamando «un vero congresso costituente». Ossia mettere un punto e andare a capo. Cuperlo è anche contrario alla costruzione di una «cosa rossa» con un’altra scissione: «Perché in un momento come questo e con una destra così forte, dividere e indebolire la principale forza del campo democratico e della sinistra sarebbe un errore esiziale e contro questo mi batterò».

Dunque, in attesa che anche lui  decida cosa sia meglio fare in attesa del congresso tanto invocato, due al momento sono le uniche certezze in casa Pd. Uno, la fine della segreteria Letta in coincidenza con l’assise che verrà. Due: che il partito sta proprio sulle scatole a tutti. E i motivi sono tanti. Li elenca Cuperlo, evidentemente molto inascoltato nel suo partito: «Da un lato conta che da 16 anni non abbiamo vinto le elezioni e per 10 anni siamo stati al governo, con buone ragioni e facendo anche buone cose. Ma questo ha trasmesso la percezione di un partito di establishment e di potere“. Accorgersi del dèmone del governismo  dopo il risultato più catastrofici della storia del Pd è un po’ bizzarro. In secondo luogo, “paghiamo il prezzo di errori e arroganze, sul jobs act, sull’articolo 18, sulla legge elettorale, sul taglio della rappresentanza parlamentare. Quindi stare sempre al governo e avere questa arroganza nelle riforme provoca una situazione in cui non basta nemmeno avere un programma di sinistra”. Bastava farsi un giro per le città per capirlo.

Di qui pone il problema della credibilità. «Letta ha fatto il possibile ma non si recuperano anni in pochi mesi. I nostri elettori sono esigenti, perdonano degli errori, non ti perdonano la distanza coi loro bisogni e sentimenti. E una classe dirigente deve avere l’umiltà di riconoscere questo limite. Davanti ai cancelli di Mirafiori l’atteggiamento degli operai lo percepivi nello sguardo, con l’accusa che tu fisicamente non c’eri più stato in quel luogo. Quindi abbiamo bisogno di accompagnare il racconto di un Paese più giusto con esempi coerenti». Certo non aiuta in questa direzione la corsa spasmodica a candidarsi alla segretaria a cui è difficile persino stare dietro. «Beh, questa corsa repentina a candidarsi senza un attimo di pausa per capire, ascoltarsi e scavare nelle radici di quel risultato, temo sia il riflesso di un individualismo penetrato dentro di noi. Non mi convince l’idea che a turno qualcuno possa alzarsi e pronunziare la battuta di Mister Wolf in “Pulp Fiction”, “Risolvo, problemi”. Questo non serve e rischia di precipitarci nell’irrilevanza». All’analisi manca sempre la fase B, la proposta. Abbiamo l’impressione che per cinque anni il Pd farà quello che sa far meglio: il congresso permanente.

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