Covid, a Processo a Conte torna la memoria. E Speranza scappa scaricando le sue responsabilità su Crisanti

Stavolta Giuseppe Conte ha spiegato. Quel “vuoto di memoria” che aveva avuto durante il primo interrogatorio (sit) davanti al tribunale dei ministri di Roma lo avrebbe colmato oggi, davanti ai giudici di Brescia. “Oggi ha commentato la nota informale del pomeriggio del 2 marzo che all’epoca, cioè durante la sit del 12 giugno, non aveva e che non avevano anche i magistrati”, ha riassunto il suo avvocato, Caterina Malavenda, dopo l’interrogatorio di oggi durato un’oretta. Per capire di che cosa stiamo parlando – e anche la chiave dell’accusa dei pm all’ex presidente del Consiglio, oggi leader pentastellato – dobbiamo fare attenzione alle date. Ad aiutarci nella ricostruzione è un appunto dell’ex membro del Cts Agostino Miozzo, anche lui indagato nell’inchiesta e agli atti di questa indagine.

È il 2 marzo 2020 ed è passata più di una settimana dall’istituzione della zona rossa a Codogno e negli altri comuni del lodigiano. Miozzo riferisce ai pm che quella sera l’ex premier incontra, in una riunione informale, il presidente dell’Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro. I contagi stanno aumentando vertiginosamente in Val Seriana, da più parti si invocano chiusure rigide come quelle già applicate nei giorni precedenti in altre zone della Lombardia. E nel corso di quella riunione di fronte a Conte si aprono due strade: chiudere Alzano e Nembro, facendo infuriare i proprietari delle attività produttive della “locomotiva d’Italia”, oppure aspettare. Conte sceglierà la seconda strada. Secondo Miozzo, Conte avrebbe risposto che “la zona rossa va usata con massima parsimonia”. E avrebbe detto anche: “Ci penserò“.

Un atteggiamento attendista che – secondo un modello matematico che fa parte della consulenza della procura bergamasca firmata dal virologo Antonio Crisanti – causerà oltre 4.000 morti proprio in quelle zone. Morti che si sarebbero potuti evitare. La difesa di Conte si basa sul fatto che in quei giorni i contagi erano altissimi già in altre zone della Lombardia e infatti alcuni giorni dopo (il 7 marzo) si decise di chiudere tutta la Lombardia, e poche ore dopo, tutta l’Italia. “Conte ha spiegato tutto quello che è accaduto dal 26 febbraio al 6 marzo rispetto alla mancata zona rossa, ha risposto a tutte le domande, noi ci fidiamo della giustizia quindi aspettiamo che i giudici si decidano, confido che finisca tutto presto e bene”, ha continuato il difensore Malavenda. Sempre la legale ha fatto sapere che depositerà anche Conte, come Speranza, una memoria difensiva.

Dopo l’interrogatorio di Conte, è stata la volta dell’ex ministro della Salute Roberto Speranza. L’esponente di Articolo 1, difeso dall’avvocato Guido Calvi, è stato sentito per circa mezz’ora. Gli viene contestato il rifiuto d’atti d’ufficio per non avere firmato il piano pandemico del 2006, che conteneva misure per contenere l’influenza. Certamente un piano inadeguato, che però aveva già in sé alcune indicazioni importanti (tamponi e organizzazione dei posti letto negli ospedali) per attuare una prima linea difensiva anche contro l’emergenza covid. “Quel piano era totalmente ininfluente per combattere la pandemia da coronavirus”, ha sottolineato il legale. Speranza a questo punto scarica la colpa su Crisanti, che nella sua consulenza di parte ha messo in luce le mancanze del governo dopo gli allarmi dell’Oms rispetto a una nuova emergenza sanitaria. Mancanze che sarebbero iniziate il 5 gennaio, cioè dopo il primo alert rispetto al covid lanciato dall’organizzazione mondiale della sanità. “Quella del 5 gennaio era solo una raccomandazione dell’Oms, al punto che il 15 gennaio si riunisce ancora e ancora una volta emana delle semplici raccomandazioni. L’Oms indica di passare a un piano più avanzato di contenimento dell’emergenza solo il 30 gennaio 2020”, continua Calvi. E Speranza a quel punto, diversamente da quanto pensano i pm di Bergamo, non avrebbe perso tempo. “Il 1 febbraio era già firmato il provvedimento del ministro”, sottolinea l’avvocato.

Il tribunale dei ministri ora ha novanta giorni di tempo per decidere se archiviare l’indagine (provvedimento non impugnabile), o se inviare gli atti al procuratore di Brescia, il quale potrà procedere solo previa autorizzazione delle Camere d’appartenenza.

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