Caso Uno “Bianca”: inchiesta non da riaprire, ma da chiudere. L’operazione verità non diventi solo un rito

Da Massimiliano Mazzanti

La richiesta -di verità dei familiari delle vittime della Uno Biancamerita una considerazione che non può e non deve essere consumata nel rito annuale del 4 gennaio, anniversario dellaStrage del Pilastro. Una commemorazione, quella che ricorda il sacrificio di tre ragazzi per mano di Roberto, Fabio e Alberto Savi, che unisce qualcosa di profondamente commovente – a partire dal dolore sempre vivo di Anna Maria Stefanini, madre di Otello, di Alessandra Moneta, sorella di Andrea, di Ludovico Mitilini, fratello di Mauro -, a qualcosa di inaccettabilmente ipocrita: la promessa di far piena luce su quella e sulle altre vicende collegate da parte delle istituzioni di Giustizia della città. Sono trascorsi ormai più di anni 32 dall’evento più agghiacciante nella storia dei poliziotti-killer; più di 35 da quando la banda che insanguinò l’Emilia e la Romagna iniziò la sua scellerata e sanguinaria avventura; ma, quel che più conta, circa 2, da quando qualcuno ha consegnato alla Procura della Repubblica elementi inequivocabili che consentirebbero di fare luce sugli aspetti ancora oscuri di quella vicenda.

Elementi ormai noti, dal momento che sono stati diffusi in molti canali mediatici e che inducono a sospettare motivatamente sul ruolo non corretto – per non dire altro – di una parte dell’Arma dei Carabinieri e di qualche inquirente. La verità fa male – come recita una canzone -, ma il mistero della Uno Bianca ruota attorno a un nome ben preciso ed è il nome di un superiore di basso rango di quei ragazzi, il brigadiere Domenico Macauda, dietro al quale si celano i nomi quanti operarono e riuscirono a farlo passare per un semplice, per quanto perfido depistatore di un singolo episodio – quello di Castel Maggiore -, in cui trovarono la morte ancora due carabinieri, Cataldo Stasi e Umberto Erriu.

L’appello a Giorgia Meloni dei familiari a questo tende: a far sì che lo “spirito di corpo” – che mai come in questo caso sarebbe pessimamente interpretato – impedisca alla struttura di sicurezza più importante della Repubblica di lavare dalla sua onoratissima divisa le macchie con cui qualche traditore la sporcò. E ancor di più la magistratura, a cui spetterebbe il compito di valutare appieno se certe carte ora nuovamente alla sua attenzione testimonino di gravissimi errori investigativi da parte di qualche elemento del suo ordine, ma quindi pur sempre errori, oppure qualcosa di ben peggiore.

Qualcuno, da anni, scrive che sarebbe venuto il tempo di riaprire le indagini sui Savi, come se non fosse vero che la Digos di Bologna, formalmente, quell’inchiesta l’ha riaperta nel 2021; dunque, semmai, è venuto il momento di chiuderla e di spiegare la natura di alcuni documenti e di alcuni atti che contribuirono a mascherare la presenza di un terzo uomo, nell’eccidio del 20 aprile 1988, e di una terza arma, le cui tracce erano sotto gli occhi di tutti. Si parla di una pistola con cui il summenzionato Macauda “entrò in contatto”, dal momento che – per il depistaggio per cui fu frettolosamente, troppo frettolosamente, processato – possedette e utilizzò bossoli sparati con la pistola che contribuì a uccidere Stasi ed Erriu. Il mistero è tutto lì. Macauda disse che quei bossoli se li procurò, sparandoli con la sua arma; eppure, le due perizie eseguite durante l’istruttoria stabilivano come non fosse affatto vero, la prima, e come non fosse più possibile stabilirlo, la seconda, eseguita dopo che gli fu in qualche modo permesso di manomettere l’arma.

Dunque, il “depistatore” – che tale è per la legge italiana, con sentenza passata in giudicato – fu… creduto sulla parola! Ovviamente, alla Procura della Repubblica di Bologna sono stati forniti anche altri, pesanti elementi su quella particolare vicenda della Uno Bianca, ma basterebbe anche solo questa assurdità, per indurre una magistratura realmente intenzionata a fare luce piena sui rapporti tra Macauda e i Savi. Rapporti fondamentali anche in considerazione del fatto che, se presuppongono qualcosa di ancor più oscuro e vasto, furono stretti ben prima che, come ricorda la letteratura in materia, nascesse la banda della Uno bianca. Almeno 19 morti prima di quando furono scoperti, arrestati e fermati. Possono certamente essere utili, da questo punto di vista, le desecretazioni di carte dei servizi segreti o di altre strutture investigative a tutt’oggi sconosciute, come è stato richiesto alla giovane premier; più di tutto, sarebbe utile un impulso alla magistratura bolognese a fare presto da parte di Carlo Nordio, magari con un occhio affinché, oltre che presto, si facesse anche bene.

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