[Boom] Il processo assume nuovi risvolti, il teste chiave Amara indagato anche per calunnia. Il processo Eni verso l’archiviazione

«I l vero motivo dell’incontro del 2014 era la necessità che io mi adoperassi per la nomina di Descalzi dal momento che si sapeva che avevo entrature negli ambienti renziani (…) il vero problema all’epoca non era ottenere l’appoggio di D’Alema e Berlusconi che erano già convinti ma piuttosto convincere Renzi (…)».

Così, interrogato nel carcere di Terni il 13 ottobre scorso, l’avvocato e faccendiere Piero Amara (nel tondo) torna per l’ennesima volta a presentarsi come il grande tessitore di trame occulte intorno all’Eni. Davanti, a interrogarlo, ha il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco e il pm Stefano Civardi. Ma stavolta il gioco di Amara non funziona più. E ora la Procura di Milano chiede il suo rinvio a giudizio per calunnia insieme a quello del suo collega Vincenzo Armanna. Dopo anni in cui sono stati utilizzati come «gole profonde» e testimoni d’accusa nei processi Eni, Amara e Armanna si ritrovano imputati dalla stessa Procura milanese. Per Amara c’è anche l’accusa di avere corrotto con centomila euro l’ex tecnico Eni Massimo Gaboardi, interrogato dai pm milanesi, perché collaborasse a inquinare le acque.

La richiesta di processo per Amara e Armanna riguarda uno dei passaggi chiave delle manovre avvenute intorno al processo per tangenti internazionali ai vertici dell’Eni: l’accusa all’avvocato milanese Luca Santa Maria di fare una sorta di doppiogioco e di avere rapporti con un gruppo che voleva «mettere le mani sull’Eni». Sullo sfondo, il complotto che sarebbe stato ordito in ambienti vicini ai vertici Eni per delegittimare la Procura milanese e spedire sotto procedimento disciplinare il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale.

Complotto, si scopre ora, esistito solo nelle manovre di Amara e Armanna. Mentre chiede il rinvio a giudizio dei due avvocati, la Procura milanese si starebbe preparando invece a chiedere l’archiviazione dell’indagine contro l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e del capo dell’ufficio legale Claudio Granata, indicati proprio dai due legali come mandanti della manovra contro i pm milanesi. Un’accusa che non ha retto agli accertamenti: da ultimo, quello – secondo quanto riportato ieri dal Corriere della sera – sul dialogo via whatsapp tra Armanna e Descalzi in cui quest’ultimo appariva come complice dell’operazione. Dialogo in realtà mai avvenuto, e confezionato maldestramente da Armanna.

Ora i tasselli sembrano finalmente andare al loro posto, con Amara e Armanna chiamati alla resa dei conti per i veleni sparsi in questi anni intorno al processo Eni. Nel frattempo Amara è divenuto anche il protagonista delle rivelazioni sulla presunta «loggia Ungheria», che hanno spaccato e lacerato la Procura di Milano: ma è ovvio che anche su quelle rivelazioni si allunga ora il sospetto della calunnia imputata ai due legali. Resta un interrogativo ancora in attesa di risposta: se i vertici Eni non c’entrano, chi ha ispirato o guidato le manovre dei due faccendieri? Qualche risposta forse potrebbe trovarsi nel telefono che la Procura milanese ha sequestrato ad Armanna, e dal quale la Guardia di finanza ha estratto i dati relativi alla falsa chat con Descalzi. Ma cosa altro c’è, lì dentro? I legali di Eni hanno chiesto di poter vedere la copia integrale del contenuto, la Procura e Armanna si sono opposti; dopo una lunga riflessione, il giudice preliminare Anna Magelli ha respinto la richiesta. Il mistero continua.

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