UN GIORNO (E UNA NOTTE) CON IL 9° “COL MOSCHIN”

By Rosaria Talarico

Cammino nella boscaglia senza vedere,
i passi sono incerti nel buio pesto, ho le
mani legate dietro la schiena con una fa￾scetta. Sento il sudore scivolare lungo la colonna vertebrale. Accanto a me un uomo tiene le mani sulle
mie guidandomi così attraverso le sterpaglie e risolle￾vandomi quando cado. Non lo fa per cavalleria. Sono il
suo ostaggio e non si può rallentare la marcia a causa mia. Pochi minuti prima mi avevano tirato fuori dal veicolo su cui
viaggiavo facendomi sdraiare faccia a terra. Il tempo di legarmi e
perquisirmi sommariamente nell’oscurità del bosco il cui odore di umi￾do e foglie marce mi riempie le narici. Non è un incubo, né un nuovo reality. Sono nel bel mezzo di un’esercitazione del 9° reggimento “Col Moschin”, il reparto di
Forze speciali dell’Esercito Italiano. Un flash mi acceca gli occhi assuefatti all’oscurità mentre viene scattata una foto.

Poi l’ordine è di alzarsi (cosa non proprio agevole avendo le mani bloccate) e mettersi in cammino. Dopo pochi passi l’incursore a cui è affidata la
mia custodia inciampa rovinosamente su una roccia. Cade imprecan￾do e impiega un po’ a rialzarsi con tutto l’equipaggiamento addosso:
armi, zaino ed elmetto. Non posso fare a meno di sorridere protetta
dalle tenebre dicendo tra me e me “se queste sono le Forze Speciali…”.
Ma non riesco neanche a finire il pensiero malevolo che inizio a scivola￾re quasi a ogni passo tra pigne, sassi e aghi di pino, sostenuta dal mio
attento sorvegliante che deve riacciuffarmi da buche nascoste dall’erba alta quanto me. Cado a terra due volte, batto un ginocchio e penso ai miei ex an￾fibi puliti che saranno inzaccherati di fango nella migliore delle ipotesi, data la presenza di animali. Accendere una torcia, no?! Una richiesta ovvia quanto inuti￾le: il Nono si muove al buio. E io con loro. Quattro ore prima non avevo idea che sarei finita a scarpinare alle tre di notte nella pi￾neta di San Rossore (una volta Tenuta presidenziale e adesso Parco regionale protet￾to). È qui, a Marina di Pisa, alla foce del fiume Arno, che ha sede la BAI (Base adde￾stramento incursori). Nella sala operativa allestita per l’esercitazione aspetto il mio
turno per “entrare in scena”. Ho indossato una giacca a vento del “Nono” sulla mimetica, ma purtroppo non è per nulla sufficiente a farmi sentire un po’ in￾cursore. Cerco rassicurazioni sul fatto che non mi spezzeranno una gamba durante l’attività. L’unica raccomandazione è di non opporre resistenza. Co￾sa che naturalmente non mi sogno proprio di fare. Anche se in fondo ho scelto io di far parte del gioco, senza indossare la pettorina di Direzione esercitazione che mi avrebbe consentito di osservare senza essere coinvolta.

Invece sarò la moglie di un terrorista, anzi dello HVT (High Value Target, obietti￾vo ad alto valore) come lo chiamano loro: siederò al suo fianco sui sedili posteriori del Suv, mentre davanti ci saranno l’autista e la guardia del corpo. Percorreremo un sentiero nella pi￾neta e sappiamo solo che a un certo punto l’auto verrà bloccata da un gruppo di incursori che dovrà catturarci.

Siamo nella Repubblica di Sardinia, Principato di San Rossore, Arcipelago di Tuscania, re￾gno dei terroristi di Al Shabau: è la nostra JSOA, la Joint Special Operation Area, i nomi finti di uno scenario africano che riecheggiano quelli della cronaca. E in fondo l’esercitazione è proprio questo: prendere fram￾menti di realtà per ricreare un ambiente il più possibile fedele alla situazione operativa. Al momento la mia preoccupazione maggiore sono i cinghiali più che gli Incursori. Entrambi popolano la tenuta di San Ros￾sore e sono ugualmente temibili. Nelle ore di attesa in sala operativa mi hanno fatto veramente
piangere, ma per le risate. Non la finivano più di fare battute e raccontare aneddoti diverten￾tissimi. Meglio di Zelig. L’ironia è al primo posto, ma guai a scambiarla per poca serietà. È
il suo esatto contrario. È l’antidoto allo stress o alla noia delle attese interminabili, due nemici presenti nelle esercitazioni e ancora di più in missione. Scherzare è il modo mi￾gliore per tenere bassa la tensione.
La partenza è fissata per le 02:00. C’è tempo per spiegare anche chi sono e cosa faccio lì. Dando così una risposta all’interrogativo che ho visto galleggiare negli occhi di qualsiasi militare mi abbia salutato da quando sono arrivata stamatti￾na: “Chi cavolo è questa?”. Le donne qui non esistono. Non ancora. Infatti nel pomeriggio avevo ingenuamente spiazzato tutti con la più banale delle domande: dov’è la toilette? Panico.

Sguardi imbarazzati. Parte il
sondaggio su quale possa essere il bagno più presentabile. Alla fine
si decide per quello del posto di guardia. Al ritorno dalla mia mis￾sion si scopre che c’era anche il bagno delle donne (l’unica don￾na attualmente è il medico del reggimento), ma è chiuso a
chiave per preservarne la pulizia. Intanto si è fatta l’ora di in￾filtrare il gruppo di incursori che sbarcherà nell’area previ￾sta. Mi preparo a salire sui battelli “Hurricane”, neri come
la notte che ci circonda. I ragazzi sorridenti e simpatici
che ho conosciuto prima sembrano spariti. Ci sono delle ombre minacciose equipaggiate di tutto punto, cappello
jungle sugli occhi e mascheramento in faccia li rendono ancora più inquietanti almeno finché qualcuno non
sorride scoprendo denti bianchissimi che risaltano sul nero fumo che camuffa il viso. L’obiettivo è rom￾pere la FLOC (forma, luce, ombra, colore), poiché
in natura non esistono forme simmetriche e l’obietti￾vo dell’incursore è innanzitutto confondersi con es￾sa rendendosi invisibile. A un certo punto iniziano a “stagnarsi”, a infilare le gambe nei sacchi neri di
plastica bloccandoli con nastro adesivo. Strabuzzo gli occhi prima ancora di fare domande: milioni di eu￾ro spesi in sofisticatissimi equipaggiamenti e usate queste buste? “Se lo scrivi, ti uccidiamo” interviene
subito uno di loro. “Oh, ma se dite che sono firmati se li comprano subito” replica un altro ironizzando sul￾l’abitudine di molti soldati sempre a caccia dell’ultimo gadget da militari alla moda. “A Pianella gli prende un colpo appena vede che non sono Vegecam (un tessuto mimetico, ndr)!”.

Il riferimento è al Maresciallo che si oc￾cupa scrupolosamente della scelta di tessuti ed equipag￾giamenti. Tutti scoppiano a ridere. Battute a parte, gli eco￾nomici sacchi neri sono buoni per impedire il passaggio dell’acqua. Ogni incursore ha tre strati di vestizione: addosso (mimetica o parka smockjacket), giberne, zaino. Torcia, accen￾dino, coltello e bussola sono da portare in ognuno dei tre strati.
Meglio abbondare. Iniziano le minacce verso il timoniere di bordo:
guai se nello sbarco approda male facendoli bagnare. Non tanto
per seguire i consigli della mamma, ma la regola aurea “muovi con
bagnato, fermo con l’asciutto”. Meglio dormire cinque minuti bene, che
dieci male a causa del freddo.
Scivoliamo nel silenzio dell’Arno con l’umido che entra nelle ossa, mentre i pipi￾strelli di San Rossore si accoppiano e per non disturbarli è vietato usare flash bang e munizioni durante le esercitazioni che si svolgono qui. Ritorniamo alla Bai, tra qualche
ora sarà il turno del nostro agguato. La stanza in cui si è svolta la pianificazione è stata com￾pletamente ripulita. Sulle enormi lavagne a parete non c’è più traccia delle informazioni delle
cellule S2 e S3, con tanto di mappe e foto segnaletiche e satellitari. Una branda da campo, qualche zaino, sacchetti viveri mezzi vuoti, bottiglie posate qua e là sui tavoli e un plastico rudimentale quanto efficace, realizzato con nastro.

Iniziamo la marcia. Non so
che ora è e dove stiamo andando.
Non ho più freddo e camminando di
buon passo inizio a sentire il sudore
sul collo. Mi pento di non aver porta￾to dell’acqua. Si sentono i respiri a
tratti affannosi degli altri, di cui intui￾sco la presenza più che vederli.
Scricchiolii di legni spezzati sotto i
nostri piedi, i versi di uccelli notturni,
odore di sudore e di muschio si me￾scolano nella mia testa. Penso
con una qual￾che nostalgia al letto, ma
mi godo anche lo spet￾ta￾colo
della natura come non siamo più abituati a viverla. Camminiamo
sotto la luce della luna e delle stelle
scintillanti che appaiono e scompa￾iono tra le fronde. Potrebbe perfino
da imballaggio, erba e cartoni. C’è una luna luminosissima che rischiara tut￾to, la vedo dai finestrini del Suv che si muove lento perché ci siamo messi in
posizione con largo anticipo. Rimaniamo immersi nella pineta, a motore e fa￾ri spenti. Forse lo sono anche i nostri pensieri, sospesi nel silenzio che ci cir￾conda. Adesso si lavora e il gioco è finito. Ci rimettiamo in marcia e l’autista questa volta dà gas procedendo a velocità sostenuta. Un tronco cade (nes￾sun albero abbattuto, se ne ricicla uno trovato per terra) e ci sbarra la strada.

L’auto viene circondata da otto uomini. “Fuori, fuori, fuori!” urla il più vicino
battendo il palmo sul parabrezza. Aprono gli sportelli e afferrano prima il bo￾dyguard, poi “mio marito” e l’autista. Vengono fatti inginocchiare e legati.
“C’è qualcun altro qui dentro” dice un incursore puntando il fa￾scio di una torcia verso di me. Fino a quel momento
ero in auto da sola e, contrariamente ai miei pro￾positi iniziali, avevo avuto la tentazione fortissima di scappare dal lato opposto che sembrava sguarnito. Non l’ho fat￾to. Nel debriefing ho scoperto che c’erano altri 14 uomini nascosti nella boscaglia. Noi ci siamo
mossi da po￾che ore. Lo￾ro sono lì
da quattro giorni con gli zaini e
tutto il ne￾cessario
per la so￾pravviven￾za. Durante
la pianificazio￾ne della missione,
l’HVT è stato conferma￾to mediante riconoscimento visuale e
SIGINT (Signal Intelligence, in pratica
le intercettazioni audio). Veniamo tutti “seekati”. Il Seek è una sorta di pal￾mare evoluto che permette il rilevamento di iridi e impronte digitali per verifi￾care affiliazioni e identità dei terroristi (a questo serviva la foto che ci è stata essere romantico.

Ma la fascetta che sega i polsi non lo è poi tanto. Ho i muscoli delle braccia e delle spalle indolenziti per questa posizione che si protrae da troppe ore. Cerco di capire dove metto i piedi, ma è
inutile con tutto quel buio. Mi complimento con me stes￾sa per aver deciso di indossare i miei comodi anfibi de￾sertici, lasciando a casa quelli normali. A differenza degli altri non ho zaino o altro equipaggiamento pe￾sante, ma non sapere quanto durerà la scarpinata mi destabilizza. Ci fanno fermare varie volte tenen￾doci in ginocchio. Ripartiamo. La sosta que￾sta volta dura molto di più e ci siamo
seduti tutti. Sento le temibili zan￾zare pisane che mi ronza￾no vicino all’orecchio, spero che gli strati di
mimetica le dissua￾dano. Con le mani
legate non posso scacciarle, muovo solo
nervosamente la testa. Non capisco
cosa stiamo aspettando e sento l’umidi￾tà che passa dal terreno ai miei pantalo￾ni già intrisi di salsedine. Ci saranno in￾setti o altre bestie qui intorno? Mio marito s’è abbioccato e russa. Perché le zanzare non vanno da lui? Almeno siamo seduti e ci ripo￾siamo un po’. Tornano due incursori che, scoprirò do￾po, erano andati a fare una QRX, una comunicazione ra￾dio, per concordare l’RV, il rendez-vous point per il nostro recupero. Riprendiamo la marcia, le fronde più basse mi colpi￾scono ripetutamente il viso graffiandomi. Arriviamo a una recinzione di filo spinato. Tocca scavalcare. Ci sono casi in cui è comodo fare l’ostaggio. Posso ini￾ziare l’arrampicata salendo sul ginocchio offerto gen￾tilmente da uno di loro. Alla fine mi issano sopra qua￾si di peso nonostante i loro zaini. Mi chiedo quanto ancora debba durare la marcia, non sono stanca ma nemmeno fresca come una rosa, vorrei solo togliermi
di dosso la mimetica sudicia. Arriviamo a una radura e vedo l’incursore addetto alle trasmissioni aprire l’antenna per confermare la nostra posizione. Forse
siamo vicini al recupero. Ed ecco la spiaggia. È quasi l’alba. Saliamo sui battelli. Uno inciampa e finisce col
viso sul gommone. Parte subito una raffica di battute: “Cercava soldi per terra, ma non spiccioli… pezzi
grossi!”, ”È caduto un cinghiale!”, Siamo incagliati a riva e per andarcene bisogna spingere il gommone
che non vuole saperne. Ci viene a tirare con una fune l’altro davanti a noi mentre un incursore spinge da
dietro con i piedi a mollo nel fiume. Appena sale a bordo previene le ovvie battute: “Ho solo lavato gli sti￾valetti, basta vedere il lato giusto delle cose”.
Game over, è ora di andare in branda. Mi riaccompa￾gnano alla caserma “Vannucci”. Sono le 07.00. Quan￾do mi guardo nello specchio del bagno nel mio allog￾gio ho del sangue raggrumato sul viso, me ne sono accorta solo adesso. É questo il mio bilancio, insieme
a una lieve storta al piede e a un’esperienza riservata a pochissimi. Tra meno di un’ora suona la sveglia.
Un’altra giornata al Nono sta per cominciare.

Rosaria Talarico, giornalista,
Tenente della Riserva Selezionata
n. 2/2015

Pubblicato da edizioni24

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